giovedì 17 marzo 2011

La storia d'Italia nell'albero di famiglia


Molti anni fa, facevo i miei studi di dottorato a St. Louis, leggendo un libro inglese di storia europea mi apparve improvvisamente ovvio ciò che per anni avevo considerato ostico e dubbio: come, cioè, le vite degli individui e delle famiglie siano quasi determinate dalle condizioni storiche in cui vivono. Che la libertà di scelta, addirittura la libertà di pensare, sono ristrette entro limiti assai ristretti, che solo poche persone -per bizzarria loro o di particolarissime circostanze- riescono a superare. Gli individui a cui stavo pensando erano il gruppetto di cognomi e generazioni dell'albero di famiglia di cui conoscevo qualcosa: Arcozzi, Ansaloni, Bandini, Bortoli; qualche decina di italiani e italiane, vissuti tra la fine del secolo XIX e il presente. Al momento dell'unità d'Italia, queste quattro famiglie lavoravano tutte la terra, quasi sempre terra altrui, e avrebbero continuato a lavorarla per almeno altri cinquant'anni. Da quel che si sa, per secoli erano rimaste ancorate ai paesi dove si ritrovavano al momento dell'Unità. Anche uno sguardo veloce alla distribuzione attuale dei cognomi testimonia di scarsa mobilità, probabilmente tutta o quasi d'epoca industriale. Famiglie contadine e padane, sparse tra il Ducato di Modena, lo Stato della Chiesa e i domini della Serenissima.

Gli Ansaloni, la famiglia della nonna materna, sono quelli dalla storia più documentata, facendo parte delle ventidue famiglie della Partecipanza di Nonantola, istituita dall'abate Gottelscalco nel 1058 e ancora in funzione. L'abbazia aveva dato delle terre in concessione perpetua, in un'epoca in cui la popolazione era la la maggior forma di ricchezza. Non so a quale punto gli Ansaloni entrarono nell'enfiteusi; sicuramente erano lì nel 1584, quando la partecipanza venne ristretta a ventitrè cognomi, uno dei quali estinto. Periodicamente la terra viene riunita e ridivisa tra gli eredi: una forma di proprietà comunitaria assai peculiare, sul nostro territorio rappresentata dalla partecipanza di Villa Fontana, a Medicina.
Il bisnonno Ansaloni coltivava la terra della partecipanza e anche della terra di proprietà: era un contadino benestante, conservatore e clericale. Lui e sua moglie, però, capirono bene l'importanza degli studi, sia per i maschi che per le femmine: le tre figlie e i tre figli passarono quasi tutti dalla condizione contadina a quella di impiegati dello stato, il nucleo forte, soprattutto in campagna, del ceto medio nell'Italia Unita. Medico, colonnello dell'esercito, maestra, impiegata alle poste i più svegli; aspirante suora (senza successo per la scarsa attitudine, non per l'assenza di vocazione) e assistente ospedaliero quelli un pò più tonti. Ovviamente, quando arrivò il fascismo questi ragazzi si ritrovarono fascisti come gran parte del ceto medio pubblico; lo fecero con un sovrappiù di entusiasmo e di clericalismo reazionario. Mia nonna ricordava sempre con gran rimpianto il Duce, con meno rimpianto Giovanni XXXIII.
La nonna aveva sposato un Bortoli, impiegato comunale con simpatie vagamente socialiste. La famiglia, contadini della bassa modenese, era di lontana origine veneta. I suoi interessi erano la storia paesana e, pare, le belle donne. Avendo una personalità assai più debole di quella della nonna, coltivò sempre la prima passione con lo stesso segreto con cui coltivava la seconda.
Le loro figlie, mia mamma e mia zia, erano quindi di condizione pienamente piccolo-borghese e, ovviamente, proseguirono gli studi oltre l'obbligo.

Dalla parte paterna s'era rimasti indietro nella storia. Sia gli Arcozzi che i Bandini erano contadini senza terra, le cui famiglie abitavano da tempo attorno a Castiglione, in una condizione perennemente precaria. Da prima dell'Unità i Bandini, pur miseri, erano fieramente repubblicani. Gli Arcozzi furono subito socialisti, con Turati e i riformisti. Per quanto repubblicana, quindi anticlericale, la nonna era pia donna di chiesa (le due cose, nei territori dell'ex stato papale, non erano così contraddittorie come i logici potrebbero pensare). Il parroco fu assai deluso quando lei gli si presentò, già in là con gli anni, col pancione tondo, a dire che doveva sposarsi. La delusione fu ancora maggiore quando seppe che il padre del nascituro e futuro marito era un mezzadro socialista e agnostico.
Da quel matrimonio nacque solo un figlio, mio padre. Con una generazione di ritardo sui modenesi, Arcozzi e Bandini abbandonarono la terra quando mio padre, stupendo un pò i genitori, decise di proseguire con gli studi: ginnasio, liceo, università a Bologna, dove incontrò mia madre.
A dire il vero, c'erano già state delle defezioni: segno che nell'Italia unita, tra progresso socio-economico e apparato dello stato in espansione, una certa mobilità sociale c'era stata fin dagli inizi. Uno zio di mio padre era stato preso in affido (strappato dalla famiglia, in un certo senso) da un lontano parente, medico e repubblicano. Mentre la sorella, mia nonna, sarebbe rimasta analfabeta, Antonio Bandini Buti (Buti era il cognome del padre affidatario) studiò in un istituto tecnico marchigiano e, dopo aver fatto da volontario la I guerra mondiale, finì a Milano come giornalista, dove diresse i periodici del Touring Club e fondò, senza mai prendere la patente di guida, Quattroruote. Scrisse diversi libri sul Risorgimento e collezionò di tutto, soprattutto lettere e manoscritti risorgimentali e opere mazziniane, che alla sua morte vennero donate al Partito Repubblicano. Il suo appartamento a Milano, che frequentai sino alla morte della seconda moglie, quasi centenaria, era un incredibile deposito di libri e antichità; un luogo di sogno in cui, da bambino, mi perdevo per lunghissime ore.
Un fratello del nonno, passato coi comunisti nel '21, aveva aperto un'officina da meccanico e suo figlio, di vent'anni più vecchio di mio padre, era diventato medico. Le maestre erano spietate coi figli dei contadini, i cui fallimenti scolastici venivano dati quasi per scontati, ma sapevano riconoscere un inusuale talento per lo studio e, in questo modo, la scuola pubblica schiudeva ad alcuni la porta della promozione sociale.
Il nonno aveva imparato a leggere, ma non a scrivere, alle scuole del Partito Socialista. Oltre agli almanacchi degli agricoltori, leggeva le pubblicazioni socialiste, ma gran parte della cultura sua e della nonna consisteva nella padronanza di una molteplicità di mestieri, più e meno artigianali, legati alla terra: da giovane aveva domato cavalli per un piccolo nobile locale, allevava vacche e maiali, aveva i gelsi e i bachi da seta e passava buona parte dell'inverno filando. Il poco che avevano di contante, però, veniva dal miele delle loro api, che in primavera il nonno portava in giro sul suo carro in cerca di fiori. Alle nuove tecnologie il nonno si adeguava solo quando le vecchie gli parevano aver esaurito ogni utilità: arava coi buoi, andava in giro con un calesse tirato da una giumenta, conservava strumenti che, nei dintorni, ormai possedeva solo lui.

Sotto il fascismo le quattro famiglie avevano avuto posizioni diverse: gli Ansaloni avevano aderito con convinzione; gli Arcozzi avevano cercato di mantenere i contatti con gli altri socialisti finché la repressione non si fece troppo capillare; a un certo punto quasi tutti avevano, chi per convinzione, chi per non perdere il lavoro, la tessera del partito. L'8 settembre, però, vide tutti i maschi arruolati in una situazione simile. Dante Ansaloni non conobbe probabilmente mai Antonio Bandini Buti, come lui di servizio nel territorio italiano d'oltreadriatico, in Albania. Questa volta Bandini Buti non fu preso prigioniero, come gli era capitato a Caporetto nella Grande Guerra. In compenso, prigioniero degli inglesi fu preso, a Tobruk, il colonnello zio degli Ansaloni, e si passò così qualche anno in un campo in India. Il nonno Bortoli riuscì a tornare dalla Jugoslavia, in qualche modo. Il secondo marito della nonna Ansaloni, che lei ancora non conosceva, fu invece catturato dai tedeschi e mandato al lavoro forzato in Germania. Si conobbero molti anni più tardi, nella valle del Panaro in cui lui abitava, e in cui lei si recava in villeggiatura, avendo da quelle parti un parente prete. Don Renato aveva avuto la vocazione aiutata dalla tisi, che rendeva impensabile l'idea che si sarebbe guadagnato la vita da contadino. La stessa tisi che convinse la diocesi di Modena a spedirlo in montagna, dove l'aria è migliore. Uomo semplice e allegro, bevitore cronico e gran giocatore di carte, affezionatissimo ai suoi parrocchiani, pur tenendosi sempre fuori dal pettegolezzo paesano, don Renato è rimasto per me l'immagine concreta e possibile del buon cristiano.
Alla fine della guerra non c'era parte in conflitto che non avesse, nei suoi campi di prigionia, un gran numero di soldati italiani e un mio parente entro il quarto grado.

I miei si conobbero nella FUCI, l'associazione degli universitari cattolici che, a Bologna, aveva come leader mons. Bettazzi, che li unì anche in matrimonio. Da lì si spostarono a Milano, l'italiana land of opportunities, dove mia madre prese la via dell'insegnamento e mio padre quella della Montedison, all'epoca industria di punta, anche se -si sarebbe visto di lì a pochi anni- imprenditorialmente fragile. La Milano dove sono cresciuto, quella che i miei frequentavano, era vitale e piena di ottimismo. Si facevano figli, si cambiava lavoro, si parlava di riforme da troppo tempo attese: la scuola, l'urbanistica, la sanità, la psichiatria, il Concilio Vaticano; l'uscita dal buco culturale in cui il paese si trovava, prendendo come esempio il Nord dell'Europa. Il piccolo appartamento dei miei era sempre pieno di gente interessante e io ascoltavo affascinato quel poco che, da bambino qual'ero, riuscivo a capire.
Tra le persone che giravano per casa c'era Giorgio Levis, professore e traduttore di inglese da Venezia, che aveva fatto la guerra partigiana fino all'inverno del '44; poi, sciolta la formazione dopo il proclama Alexander, aveva passato il fronte ed aveva risalito il Nord Italia con gli inglesi, in un reparto di sminatori. Aveva degli interessi onnivori: politica, scienza e linguistica soprattutto. Ovviamente aveva partecipato al '68, che fu poi l'occasione in cui conobbe i miei. Contrariamente alla sciocca vulgata che circola su quegli anni, era un professore severissimo (come testiminiano anche i suoi ex studenti su Facebook). Un'altra presenza ricorrente era Bianca Ghiron, insegnante di matematica e collaboratrice di Lucio Lombardo Radice. Anche lei aveva partecipato, a Roma, alla Resistenza, e aveva avuto una vita assai movimentata. Nel '56 era emigrata nella Germania Orientale, perché il suo compagno, ingegnere comunista, non riusciva a trovare lavoro in Italia. Tornarono dieci anni più tardi: pur godendo di un discreto benessere, la vita nella Germania Orientale della Stasi risultava a loro sempre più stretta, mentre in Italia, a partire dal '62, la situazione s'era fatta più aperta e rilassata anche per loro. Bianca, che sapeva e sapeva fare un sacco di cose diverse (aveva dovuto arrangiarsi per tutta la vita, cambiando lavoro in continuazione), mi ricorda molto il nonno contadino e semianalfabeta che, in campo assai diverso, aveva avuto una simile varietà di interessi e mestieri.

I miei fratelli e io eravamo la prima generazione pienamente urbana delle nostre famiglie, senza memoria diretta di un passato contadino. Le più belle vacanze, comunque, erano quelle che passavamo dalla zia Sarina, a Castiglione di Ravenna (in fondo allo sterrato poi chiamato via Antonio Bandini Buti), sorella della nonna Enrica, che continuò a fare la contadina fino alla morte.
L'atmosfera aperta, fiduciosa e piena di progetti in cui crescevamo mi sembrava la normalità. Guardarci dal punto di vista dell'Italia di oggi, così spesso chiusa, sospettosa e ripiegata su dei passati spesso immaginari, fa a volte uno strano effetto.

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