venerdì 27 gennaio 2012

Testi brevi, ma intensi: la parabola del buon samaritano.

Alcuni testi hanno al tempo stesso una loro cristallina chiarezza letterale e la capacità di produrre un'infinita varietà di sviluppi e significati. Uno dei testi più ricchi che io conosca è la parabola del buon samaritano: non ha nulla di sibillino, eppure offre, già nel testo, molti punti di vista da cui può essere guardata. Anzi, la sua ragione sta proprio in un rovesciamento a sorpresa del punto di vista.

25 Un dottore della legge si alzò per metterlo alla prova: "Maestro, che devo fare per ereditare la vita eterna?". 26 Gesù gli disse: "Che cosa sta scritto nella Legge? Che cosa vi leggi?". 27 Costui rispose: "Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come te stesso".28 E Gesù: "Hai risposto bene; fà questo e vivrai". 29 Ma quegli, volendo giustificarsi, disse a Gesù: "E chi è il mio prossimo?".
30 Gesù riprese: "Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti che lo spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. 31 Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e quando lo vide passò oltre dall'altra parte. 32 Anche un levita, giunto in quel luogo, lo vide e passò oltre. 33 Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto lo vide e n'ebbe compassione. 34 Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatolo sopra il suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui. 35 Il giorno seguente, estrasse due denari e li diede all'albergatore, dicendo: Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al mio ritorno.
36 Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?". 37 Quegli rispose: "Chi ha avuto compassione di lui". Gesù gli disse: "Và e anche tu fa lo stesso".


(Luca, 10)

Intanto, chi sono i samaritani? Il presente è d'obbligo: esistono ancora, in Israele, due comunità samaritane, che messe insieme totalizzano meno di mille individui. I samaritani sono, nel frondoso albero profetico che nasce con Abramo, il tronco che precede le prime ramificazioni. Essi, infatti, riconoscono come testo sacro i soli primi cinque libri della Bibbia (la Torah, il Pentateuco), rifiutando come apocrifa la tradizione profetica posteriore. I samaritani sono gli ebrei rimasti nella terra d'Israele al momento dell'esilio babilonese. Quando gli ebrei della diaspora tornarono, trovarono i samaritani.
La comunità ebraica di ritorno s'era evoluta in maniera così difforme da quella che era rimasta, che si negò persino che i samaritani fossero ebrei. Doveva trattarsi di popolazioni non ebraiche deportate in Israele dagli stessi assiri che avevano esiliato gli ebrei in terra babilonese. Queste si sarebbero approssimativamente ebraicizzate, mentre il popolo ebreo languiva in Babilonia. Peggio, dunque, che straniere: si trattava di stranieri che cercavano di imitare gli ebrei e che pretendevano di essere i depositari della religione dell'unico Dio. Doppiamente stranieri, cioé: estranei e somiglianti; diversi e conviventi.
Scegliendo colui che più estraneo non può essere al sacerdote e al levita, la scelta di Gesù non ricade su un romano o su un fenicio, ma su un samaritano: uno di quelli che, pur proclamando di vivere nella profezia, ne rifiutavano una gran parte.

Il samaritano è straniero, ma non barbaro (parla sicuramente aramaico), nè è -per essere straniero- privo di mezzi e di iniziativa. Ha con sé del denaro, si rivolge da pari a pari all'oste, prende decisioni rapidamente e efficacemente. E' risoluto e prudente. Annunciando che pagherà al ritorno (quindi, che tornerà), offre all'oste due buoni motivi per non liberarsi in maniera spiccia dell'uomo ferito: la possibilità di un ulteriore guadagno da una parte, l'avvertimento che il suo operato verrà controllato e valutato dall'altra. (La letteratura antica e meno antica è piena di osti che uccidono i loro ospiti inermi).
Lo straniero (il samaritano) non viene qui rappresentato come colui che ha bisogno d'aiuto (come nei racconti d'ospitalità), né come una minaccia; ma come persona pienamente agente e capace.
Il rovesciamento del punto di vista è chiaro. Non viene presentato il caso di un non ebreo soccorso da un ebreo; ciò che, per il dottore della legge, sarebbe suonata come un'esortazione -come si dice oggi con lessico volutamente malevolo- "buonista". Al dottore della legge vengono proposte due figure famigliari (il sacerdote, il levita) e lo straniero per eccellenza (il samaritano): con questo ultimo, non con i primi due, il dottore è inevitabilmente portato a identificarsi.
Nel momento in cui incontriamo il ferito per strada (e ci siamo solo noi e lui: possiamo soccorrere o passare oltre), noi e il ferito siamo ugualmente stranieri. Nella vita, cioè, ci si va da stranieri: non c'è legame con la terra o con la comunità che ci liberi dalla necessità (e dalla facoltà) di scegliere.

Un altro aspetto della parabola riguarda proprio la differenza. L'uomo mezzo morto, ovviamente ebreo, è assai diverso dal samaritano: persino il Tempio ha, per i due, una diversa collocazione. Erano diversi prima dell'incontro e saranno diversi dopo: l'ebreo rimarrà ebreo, il samaritano rimarrà samaritano. Nella parabola non si scambiano nemmeno una parola.
Eppure, il loro incontro non può che rendere diversi entrambi: il soccorso e il soccorritore, uniti solo nell'azione del soccorrimento. Così come, implicitamente, sono usciti diversi dal loro incontro col moribondo, in peggio, il sacerdote e il levita.

lunedì 16 gennaio 2012

Idee forti: l'evoluzione secondo Darwin

Lo spunto per questo abbozzo meno che amatoriale (non sono un naturalista) viene dalla lettura di alcuni scritti anti-darwinisti. Ciò che mi ha colpito non è che ci sia dibattito intorno alla teoria darwiniana dell'evoluzione (una teoria scientifica che non susciti dibattito è una teoria ben povera, anche in termini scientifici), quanto la profonda ignoranza della teoria che si va discutendo. Questa ignoranza, poi, la si cerca di celare sotto una coltre di sarcasmi, aggettivi, affermazioni tanto sicure di sé quanto logicamente instabili. Sospettare che all'ignoranza sia mescolata la malafede viene naturale.
Per quel poco che so e capisco, cerco di ricordare a mestesso di cosa si sta parlando.
(0) Quando Darwin perviene alla teoria dell'evoluzione, assieme a un altro naturalista, la cronologia del mondo è già stata sconvolta dai geologi, che datano i fenomeni terrestri in milioni di anni, non più in migliaia. Molti naturalisti hanno già ipotizzato che la vita sul pianeta si sia evoluta: alcune specie animali e vegetali sono scomparse, altre sono apparse; le ultime si sono evolute dalle altre nel corso delle generazioni, di genitori in prole. Tutto ciò non viene messo in discussione da nessuno, al giorno d'oggi, tranne che da un pugno di fanatici. (Non era così nell'Ottocento).
Un caposaldo del naturalismo, per niente scontato, era già stato stabilito nel Seicento: la vita è un processo unitario; la vita viene dalla vita. Infatti (i) non c'è generazione spontanea (Redi) e (ii) dietro a ogni generazione di vita c'è la fecondazione di un uovo (la cosa si complicherà al crescere della precisione dei microscopi).
(1) Il contributo di Darwin è una spiegazione razionale che viene proposta come motore principale dell'evoluzione. Quando la prole presenta una varietà di caratteristiche, alcuni esemplari hanno una maggior possibilità di raggiungere la maturità sessuale, di riprodursi e di dar vita a una prole altrettanto abile di perpetuarsi nelle condizioni ambientali date. Queste caratteristiche si trasmettono in qualche modo attraverso le generazioni. Le caratteristiche che rendono l'essere vivente più adatto a perpetuarsi, passando di generazione in generazione, si fissano nella specie. Uno dei principali motori dell'evoluzione è quindi la competizione per portare della prole allo stadio riproduttivo. Non è l'unico.
Questo è, ovviamente, un racconto molto semplificato. Darwin considera le possibili conseguenze dei cambiamenti ambientali, della divaricazione delle specie (mammiferi arboricoli che divergono in terrestri e volanti, per esempio) e di altri meccanismi attarverso cui si dispiegano gli effetti dell'evoluzione.
La teoria di Darwin ha molti pregi: non richiede forze esterne agli esseri viventi, né volontà da parte di questi, né surrogati della volontà (finalità del mondo naturale). Spiega molte cose, ma non troppe, e fornisce un quadro teorico in cui fare ipotesi verificabili per singoli fenomeni. Mette in uno stesso quadro di riferimento l'esperienza degli allevatori, che da millenni incrociano le razze per fer emergere particolari caratteristiche, la documentazione fossile e le osservazioni (di cui Darwin fu maestro) in ecosistemi selvaggi contemporanei. Il meccanismo secondo cui la prole presenta caratteri diversificati resta a questo punto un mistero.
(2) Mendel, un frate boemo, compiendo precise e lunghe osservazioni nelle piante di piselli dell'orto annesso al monastero, spiega il meccanismo (principale, nonesclusivo: anche qui le cose sono più complesse) secondo cui due varianti di uno stesso carattere (pisello rugoso piuttosto che liscio, per esempio) passano di generazione in generazione. Ogni individuo porta con sè due copie dello stesso carattere. Se le varianti sono A (liscio) e B (rugoso), l'individuo può essere AA, AB, BB. Al momento della riproduzione (se sessuata), una delle due copie solamente viene coinvolta nella generazione di un nuovo individuo. Così, da un individuo AA e da un individuo AB possono essere generati individui AA o AB. Da due individui AB abbiamo una prole che può essere AA, AB, BB. Mendel misura nei suoi piselli che ogni elemento della coppia ha pari probabilità nella riproduzione: nel caso di due AB, quindi, avremo AA in un caso su quattro, AB in due casi su quattro, BB in un caso su quattro. (Meglio detto, Mendel deduce ciò -in maniera indiretta e geniale- da precise osservazioni quantitative).
Accade spesso che una delle due varianti A o B sia dominante: cioè che un individuo AB esibisca le caratteristiche portate dal gene A, se A domina. Se due individui AB hanno molta prole, circa un quarto esibirà le caratteristiche B (gli AB e gli AA), mentre un solo quarto esibirà le caratteristiche B.
Una coppia AA e BB verrà sparire la caratteristica B da tutta la sua prole (saranno tutti AB); ma questa tornerà in un quarto della generazione successiva (che sarà, come dicevamo, fatta di AA, AB e BB).
Il profondo lavoro di Mendel fornisce uno dei meccanismi biologici principali (non l'unico) attraverso cui si realizza (per esempio) uno dei fenomeni dell'evoluzione (l'estinzione di caratteri dominanti sfavorevoli). Si noti che la teoria di Mendel, come quella dell'evoluzione, non presuppone direzioni, né volontà, né spinte interne agli organismi.
L'emergere di variazioni prima inesistenti nei caratteri ereditari (mutazioni genetiche) diventa, dopo Mendel, un problema della massima rilevanza ai finidelle scienze naturali. (Problema 1: emergono queste variazioni? Problema 2: come? Problema 3: possono, queste mutazioni, spiegare il percorso evolutivo tra specie molto diverse?).
Una versione di questa storia che pare ignorare completamente il lavoro di Mendel, oltre che quello di Darwin, si trova in GREGOR MENDEL, IL PADRE DELLA GENETICA, IL SACERDOTE CHE HA SMENTITO SCIENTIFICAMENTE IL DARWINISMO
, di Marco Respinti sul sito "Bastabugie". Respinti, significativamente, scrive
È così che Mendel, osservando la realtà e lasciandosi realisticamente ammaestrare da essa, descrisse e scrisse la famosa legge dell'ereditarietà dei caratteri: negli esseri viventi esistono unità indipendenti ed ereditabili, e l'ereditarietà è un andamento determinato dalle diverse combinazioni di codeste unità indipendenti. Non c'è caso, non c'è selezione naturale. C'è invece un corso e ricorso regolare, descrivibile con moduli matematici, che si svolge seguendo una logica ferrea.

Il fatto, forse incomprensibile a Respinti, è che le leggi del "caso" a lui tanto antipatico dispiegano -con ragionamento logicamente ferreo, su questo sono daccordo- "moduli matematici" esattamente corrispondenti a quelli descritti da Mendel. Mendel, che di probabilità non era digiuno, lo sapeva bene. Le sue leggi, infatti, sono probabilistiche, non deterministiche (non per questo sono meno logiche, o meno matematiche). La parola "indipendente" citata da Respinti è, per l'appunto, il concetto probabilistico che permette di dedurre le leggi di Mendel (la prole di due individui dipende solo dai due individui: non dalla storia dei loro antenati; nè dalla prole precedentemene generata da quei due stessi individui).
(3) La scoperta del DNA e del suo ruolo, a sua volta, fornì una spiegazione delle leggi di Mendel a livello molecolare. A un livello, cioè, molto più esplicativo. Anche qui, il DNA non è tutta la storia; anzi, buona parte della storia è tutt'ora sconosciuta. Nel DNA, tra l'altro, possono essere misurate precisamente delle mutazioni e possono essere talvolta dedotte i loro effetti sull'apparenza dell'organismo. Anche se il DNA è perfettamente conosciuto, tra l'altro, molto poco si sa ancora su come agisce (molto si sa, ma molto più s'ignora).
Studi di genetica delle popolazioni, tra l'altro, hanno permesso di incrociare i dati genetici con quelli fossili e, nel caso della specie umana, con quelli storici e linguistici. Ne vengono fuori narrazioni molto coerenti e conferme che il quadro dell'evoluzione darwiniana è un quadro solido, con un futuro davantia sé.

La teoria di Darwin -oggi più dettagliata, mendeliana e molecolare- è, che io sappia, l'unica teoria scientifica della storia naturale in circolazione. Ciò non vuol dire che sia l'unica possibile, né che non siaq destinata ad essere soppiantata da un'altra che la estenda e rivoluzioni, come la relatività generale ha fatto con la fisica newtoniana. Semplicemente, non esiste nessun lavoro scientifico alternativo; manca quella sintesi di idee e pèrove sperimentali da cui nascono le teorie nuove.
Esistono molte crtiche alla teoria darwiniana e c'è molto lavorio critico dentro la teoria darwiniana in sé. Le critiche alla teoria darwiniana sono scientificamente deboli, perché nascono principalmente dal fatto che alcune persone trovano l'evoluzione di Darwin inaccettabile per ragioni filosofiche o etiche. E' raro che da posizioni puramente filosofiche ed etiche (legate a sistemi puramente ideali, cioè ideologiche) nascano teorie scientifiche di successo. Certo, le critiche in sé possono essere buone e degne di considerazione; ma più spesso che no sono state anticipate all'interno stesso della teoria, dove il lavoro (auto)critico è continuo.
Alcune critiche, poi, sono meno buone e degne; quelle generiche soprattutto. Ne cito una, perché bene illustra come il lavoro della (buona) scienza non sia quello di spiegare tutto, anche se si vogliono spiegazioni comunque universali (per quanto transienti). I fenomeni naturali possono essere completamente spiegate in termini di spiriti (come nello sciamanesimo, diciamo). A ogni nuovo fenomeno, basta aggiungere un nuovo spirito, o un nuovo capriccio di uno spirito esistente. Questa teoria, per quanto utile a popolazioni di cacciatori-raccoglitori, non è scientifica. Una teoria scientifica isola una piccola quantità di fenomeni, cerca un modello esplicativo generale che spieghi questi fenomeni, e che sia utile a porre domande su ogni altro fenomeno della stessa classe: domande a cui si possa rispondere affermativamente o negativamente. Così, per esempio, la gravità spiega gran parte del movimento spontaneo delle acque (dall'alto verso il basso), anche se non tutte (le risorgive della pianura padana, per esempio, in cui l'acqua dal basso emerge in alto). Certo, potremmo postulare uno spirito dlla risorgiva e accontentarci, o confutare il principio di gravità tout-court. Lo scienziato, invece, cercherà di trovare una scienza delle acqua sintetica, ma più ricca (un'idrodinamica) in cui entrambi i fenomeni siano spiegabili. Criticare la vecchia idrodinamica ha un senso nella prospettiva dell'idrodinamica nuova, non in quella di un ritorno allo sciamanesimo che tutto spiega e mette a posto. Una teoria scientifica che spiega troppo (in cui non c'è acceso dibattito critico) è da guardare con sospetto. Assomiglia tremendamente a uno sciamanesimo. Un esempio è la psicanalisi, in cui il dibattito sui fondamenti ha spesso portato alla scissione in diverse scienze, non a una sintesi più esplicativa. (Ciò non toglie che la psicanalisi sia un'affascinante narrazione dell'uomo, con aspetti di verità interiore che non possono essere liquidati in base a mere considerazioni scientifiche).
Quello stesso scienziato alle prese con l'idrodinamica, poi (Archimede, diciamo), renderà omaggio, nei giorni comandati, al dio delle acque che ha lasciato la sua città (Siracusa, per rimanere nell'esempio) a secco. Gli scienziati sono uomini e vivono, come tutti gli uomini, in realtà diverse e ruoli diversi, che non è necessario voler ridurre a sintesi a tutti i costi. Lo scienziato che trae spicce conclusioni etiche o filosofiche dalle leggi naturali non è meglio di quello che confuta frettolosamente il lavoro dello scienziato in base a pregiudiziali concezioni filosofiche o etiche. Si tratta di due versioni dello stesso integralismo: una concezione povera della civiltà, in versione bifronte.