mercoledì 30 marzo 2011

Limericks e favole X



Fece un'orsa polare di Bethel
un igloo di cassate a zia Ethel:
voleva la zia
che -persi per via-
arrivassero li' Hansel e Grethel.

dal mazapegul



martedì 29 marzo 2011

Limericks e favole IX



Tre re dell'isola di Santorini
le mani han nel ragù fino ai polsini.
Un cameriere attonito
(respinge a stento il vomito)
osa pensar: "Ecco i re porcellini."

dal mazapegul



mercoledì 23 marzo 2011

Primo Casalini: un ricordo


Un anno fa, il 16 marzo 2010, moriva Primo Casalini, di cui ero amico e alle cui attività in rete avevo collaborato -senza il suo talento e senza costanza- per qualche anno. Ci eravamo conosciuti nel 2002, ai tempi dei movimenti politici neo-ulivisti, ma la nostra amicizia era poi cresciuta ad abbracciare altri interessi. Ci siamo incontrati di persona meno di dieci volte in tutto, ma eravamo in continuo contatto per via di posta elettronica.
Solimano, il nick di Primo, era un ingegnere dell'IBM prepensionato durante una delle tante ristrutturazioni della multinazionale. Veniva da una famiglia operaia emiliana, il padre era ferroviere, ma abitava da tempo a Monza. Alla solida preprazione degli ingegneri, Solimano univa una curiosità onnivora per la cultura, una preparazione quasi professionale nell'arte e un pensiero sempre in movimento, libero e creativo, ma anche critico e rigoroso. Per Primo la cultura non era un interesse in sé, ma un modo per stare nella vita; un punto di vista sulle cose grandi e su quelle piccole; il tratto comune a un piatto di tortellini, alla difficoltà di rapportarsi con gli altri, a un paesaggio intravisto dal finestrino d'un treno. Credeva che tutto ciò non fosse campo esclusivo dei filosofi e degli artisti, che riconosceva come maestri, ma che potesse e dovesse essere alla portata di chiunque.
Ciascuno di noi, avendo di tanto in tanto esperienze intense e possedendo un linguaggio, è in grado di scrivere cose interessanti e istruttive, di valore universale. Non sarà necessariamente arte o letteratura, certo, ma nel mondo di internet non c'è più la necessità di pubblicare: tutti possono scrivere per un pubblico sconfinato. Il fatto che ciò avvenga senza spese e senza grande sforzo editoriale, però, non deve indurre alla sciatteria e alla vuota chiacchera. Ha senso scrivere solo se si guarda alla qualità. La qualità, scrivendo in rete, è la considerazione per quelli che leggono e, quindi, lo sforzo di scrivere con verità. Sulla verità, ciascuno di noi è giudice di sestesso: l'importante è essere giudici critici e sinceri. E scegliere bene le immagini.
Spero di aver riassunto fedelmente lo spirito della teoria che Primo aveva più volte illustrato al piccolo e mutevole gruppo dei suoi collaboratori.
Tra le iniziative di Primo vi sono diversi blog. Uno di quelli che lui amava di più era abbracci e popcorn, un blog di cinema che, in poco più d'un anno, aveva fatto un milione e mezzo di visite. Doveva essere un blog sul cinema come lo si vede da spettatori, non da critici, né da lavoratri del cinema. Era andato, secondo me, ben al di là di questo obiettivo iniziale. Rimando, in quel blog, a un bellissimo pezzo di Primo sulla pittura nel Decameron di Pasolini. Tipicamente, Primo vi analizza minutamente la maniera in cui Pasolini aveva cercato di rendere attuale e cinematgrafica la visione di Giotto, facendo dialogare diverse epoche e mezzi artistici, come spesso accade nella poetica pasoliniana.
Primo era anche impegnato nella sua Monza: aveva contribuito a creare diverse associazione di successo e collaborava spesso alla bella rivista monzese online Arengario, tutt'ora vitalissima.
Scrivo qui di Primo non solo per l'amicizia che ci legava e per gratitudine per tutto ciò che, soprattutto in campo artistico, ho imparato da lui; ma anche perché -curando questo blog per l'associazione Incontri- ho saccheggiato le sue idee in merito ai blog e persino l'impostazione grafica particolare. In rete si trovano diverse cose scritte in ricordo di Primo; metto il link a quella che scrissi per avvisare i naviganti che Abbracci e Popcorn s'era interrotto per una ben triste causa.

martedì 22 marzo 2011

LImericks e favole VIII




Un gigante di Castiglion Fibocchi
infestato dal capo fino agli occhi
da mille falegnami
coi loro figli strani,
la testa si grattava dai Pinocchi.

dal mazapegul




venerdì 18 marzo 2011

La rovina del giocatore e il nucleare


Mentre si attende con ansia (per i giapponesi) di sapere se la parziale fusione del nocciolo in diversi reattori nucleari possa venir messa sotto controllo, ciò che tutti sperano, si riaccende il dibattito sul nucleare in tutto il mondo, Italia compresa. La parte più importante del dibattito riguarda la sicurezza. La domanda cruciale è: cosa vuol dire "sicuro" quando si parla di impianto nucleare civile?
L'incidente nucleare in Giappone è l'effetto secondario di circostanze rarissime e enormemente tragiche. Quanto devono essere tenute in conto le circostanze rarissime, quando si parla di sicurezza?
Il problema andrebbe rovesciato dalle circostanze ai loro effetti. Cosa possaimo dire nel caso in cui, come adesso in Giappone, ogni sistema di sicurezza (e ce n'erano molti) imprevedibilmente fallisce lo scopo? Alcuni dicono che la domanda, ai fini della sicurezza, non ha senso. Io credo che, invece, lo abbia. Riformulo la domanda: se tutti i sistemi di sicurezza falliscono, c'è qualcosa che può essere fatto? C'è un limite accettabile alla catastrofe?
Quello che stanno facendo un centinaio di eroici tecnici in Giappone è proprio, con gravissimo rischio per la propria vita, cercare di rispondere concretamente alla prima domanda, sospettando che la risposta alla seconda domanda -un possibile fallout radioattivo su Tokio- sia inaccettabile.
A chi ritiene il problema della sicurezza-al-di-là delle misure di sicurezza un controsenso, obietto che questa situazione è uno dei cardini della teoria elementare delle probabilità.
Avrete spesso sentire qualche conoscente esporre la strategia del raddoppio per giochi d'azzardo. Prendiamo testa-o-croce. Punto un euro. Se perdo, gioco due euro. Se perdo ancora raddoppio a quattro, e via andando. Non appena vinco, rimedio tutte le perdite precedenti, più il guadagno di un euro. Se ho una scorta di euro abbastanza grande, posso resistere al raddoppio per decine di tentativi. Per la legge dei grandi numeri, la probabilità di perdere decine di volte di seguito è infima. Quindi, con ragionevole certezza sono sicuro di uscire con il mio euro di vincita (anche in caso di moneta truccata!).
Il diavolo sta nella probabilità infima. Infatti, se mi fermo prima di aver vinto un euro, ho accumulato solo perdite. Devo quindi procedere. Se arrivo al punto di esaurire il capitale, ho perso tutto nel tentativo di vincere un euro (mille euro circa per dieci tentaivi, un milione per venti e così via; se la moneta non è trccata). Ora, è razionale questa strategia?
I probabilisti formalizzano il tutto sotto la nozione di "guadagno medio" (che nel gioco appena descritto è nullo) per mostrare che, fatalmente, uno che giochi con questo schema finirà in rovina: chiamano questo il Teorema della Rovina del Giocatore. Da un punto di vista meno teorico, vediamo bene che le conseguenze nel caso sfortunato (la rovina totale) sono inaccettabili, pur essendo improbabili, rispetto ai molti casi fortunati (in cui guadagno un modesto euro).
I sostenitori del nucleare a uso civile devono mostrare che il caso residuo, quello molto sfortunato, non è "la rovina del giocatore". Che, esaurite le misure di sicurezza, non è la fine di Tokio, o di Parigi, o di Milano. Umberto Veronesi, un difensore sensibile e intelligente del nucleare, lo ha capito subito. Molti altri difensori del nucleare, vuoi perché meno intelligenti, vuoi perché meno sensibili, non l'hanno capito per nulla.

giovedì 17 marzo 2011

La storia d'Italia nell'albero di famiglia


Molti anni fa, facevo i miei studi di dottorato a St. Louis, leggendo un libro inglese di storia europea mi apparve improvvisamente ovvio ciò che per anni avevo considerato ostico e dubbio: come, cioè, le vite degli individui e delle famiglie siano quasi determinate dalle condizioni storiche in cui vivono. Che la libertà di scelta, addirittura la libertà di pensare, sono ristrette entro limiti assai ristretti, che solo poche persone -per bizzarria loro o di particolarissime circostanze- riescono a superare. Gli individui a cui stavo pensando erano il gruppetto di cognomi e generazioni dell'albero di famiglia di cui conoscevo qualcosa: Arcozzi, Ansaloni, Bandini, Bortoli; qualche decina di italiani e italiane, vissuti tra la fine del secolo XIX e il presente. Al momento dell'unità d'Italia, queste quattro famiglie lavoravano tutte la terra, quasi sempre terra altrui, e avrebbero continuato a lavorarla per almeno altri cinquant'anni. Da quel che si sa, per secoli erano rimaste ancorate ai paesi dove si ritrovavano al momento dell'Unità. Anche uno sguardo veloce alla distribuzione attuale dei cognomi testimonia di scarsa mobilità, probabilmente tutta o quasi d'epoca industriale. Famiglie contadine e padane, sparse tra il Ducato di Modena, lo Stato della Chiesa e i domini della Serenissima.

Gli Ansaloni, la famiglia della nonna materna, sono quelli dalla storia più documentata, facendo parte delle ventidue famiglie della Partecipanza di Nonantola, istituita dall'abate Gottelscalco nel 1058 e ancora in funzione. L'abbazia aveva dato delle terre in concessione perpetua, in un'epoca in cui la popolazione era la la maggior forma di ricchezza. Non so a quale punto gli Ansaloni entrarono nell'enfiteusi; sicuramente erano lì nel 1584, quando la partecipanza venne ristretta a ventitrè cognomi, uno dei quali estinto. Periodicamente la terra viene riunita e ridivisa tra gli eredi: una forma di proprietà comunitaria assai peculiare, sul nostro territorio rappresentata dalla partecipanza di Villa Fontana, a Medicina.
Il bisnonno Ansaloni coltivava la terra della partecipanza e anche della terra di proprietà: era un contadino benestante, conservatore e clericale. Lui e sua moglie, però, capirono bene l'importanza degli studi, sia per i maschi che per le femmine: le tre figlie e i tre figli passarono quasi tutti dalla condizione contadina a quella di impiegati dello stato, il nucleo forte, soprattutto in campagna, del ceto medio nell'Italia Unita. Medico, colonnello dell'esercito, maestra, impiegata alle poste i più svegli; aspirante suora (senza successo per la scarsa attitudine, non per l'assenza di vocazione) e assistente ospedaliero quelli un pò più tonti. Ovviamente, quando arrivò il fascismo questi ragazzi si ritrovarono fascisti come gran parte del ceto medio pubblico; lo fecero con un sovrappiù di entusiasmo e di clericalismo reazionario. Mia nonna ricordava sempre con gran rimpianto il Duce, con meno rimpianto Giovanni XXXIII.
La nonna aveva sposato un Bortoli, impiegato comunale con simpatie vagamente socialiste. La famiglia, contadini della bassa modenese, era di lontana origine veneta. I suoi interessi erano la storia paesana e, pare, le belle donne. Avendo una personalità assai più debole di quella della nonna, coltivò sempre la prima passione con lo stesso segreto con cui coltivava la seconda.
Le loro figlie, mia mamma e mia zia, erano quindi di condizione pienamente piccolo-borghese e, ovviamente, proseguirono gli studi oltre l'obbligo.

Dalla parte paterna s'era rimasti indietro nella storia. Sia gli Arcozzi che i Bandini erano contadini senza terra, le cui famiglie abitavano da tempo attorno a Castiglione, in una condizione perennemente precaria. Da prima dell'Unità i Bandini, pur miseri, erano fieramente repubblicani. Gli Arcozzi furono subito socialisti, con Turati e i riformisti. Per quanto repubblicana, quindi anticlericale, la nonna era pia donna di chiesa (le due cose, nei territori dell'ex stato papale, non erano così contraddittorie come i logici potrebbero pensare). Il parroco fu assai deluso quando lei gli si presentò, già in là con gli anni, col pancione tondo, a dire che doveva sposarsi. La delusione fu ancora maggiore quando seppe che il padre del nascituro e futuro marito era un mezzadro socialista e agnostico.
Da quel matrimonio nacque solo un figlio, mio padre. Con una generazione di ritardo sui modenesi, Arcozzi e Bandini abbandonarono la terra quando mio padre, stupendo un pò i genitori, decise di proseguire con gli studi: ginnasio, liceo, università a Bologna, dove incontrò mia madre.
A dire il vero, c'erano già state delle defezioni: segno che nell'Italia unita, tra progresso socio-economico e apparato dello stato in espansione, una certa mobilità sociale c'era stata fin dagli inizi. Uno zio di mio padre era stato preso in affido (strappato dalla famiglia, in un certo senso) da un lontano parente, medico e repubblicano. Mentre la sorella, mia nonna, sarebbe rimasta analfabeta, Antonio Bandini Buti (Buti era il cognome del padre affidatario) studiò in un istituto tecnico marchigiano e, dopo aver fatto da volontario la I guerra mondiale, finì a Milano come giornalista, dove diresse i periodici del Touring Club e fondò, senza mai prendere la patente di guida, Quattroruote. Scrisse diversi libri sul Risorgimento e collezionò di tutto, soprattutto lettere e manoscritti risorgimentali e opere mazziniane, che alla sua morte vennero donate al Partito Repubblicano. Il suo appartamento a Milano, che frequentai sino alla morte della seconda moglie, quasi centenaria, era un incredibile deposito di libri e antichità; un luogo di sogno in cui, da bambino, mi perdevo per lunghissime ore.
Un fratello del nonno, passato coi comunisti nel '21, aveva aperto un'officina da meccanico e suo figlio, di vent'anni più vecchio di mio padre, era diventato medico. Le maestre erano spietate coi figli dei contadini, i cui fallimenti scolastici venivano dati quasi per scontati, ma sapevano riconoscere un inusuale talento per lo studio e, in questo modo, la scuola pubblica schiudeva ad alcuni la porta della promozione sociale.
Il nonno aveva imparato a leggere, ma non a scrivere, alle scuole del Partito Socialista. Oltre agli almanacchi degli agricoltori, leggeva le pubblicazioni socialiste, ma gran parte della cultura sua e della nonna consisteva nella padronanza di una molteplicità di mestieri, più e meno artigianali, legati alla terra: da giovane aveva domato cavalli per un piccolo nobile locale, allevava vacche e maiali, aveva i gelsi e i bachi da seta e passava buona parte dell'inverno filando. Il poco che avevano di contante, però, veniva dal miele delle loro api, che in primavera il nonno portava in giro sul suo carro in cerca di fiori. Alle nuove tecnologie il nonno si adeguava solo quando le vecchie gli parevano aver esaurito ogni utilità: arava coi buoi, andava in giro con un calesse tirato da una giumenta, conservava strumenti che, nei dintorni, ormai possedeva solo lui.

Sotto il fascismo le quattro famiglie avevano avuto posizioni diverse: gli Ansaloni avevano aderito con convinzione; gli Arcozzi avevano cercato di mantenere i contatti con gli altri socialisti finché la repressione non si fece troppo capillare; a un certo punto quasi tutti avevano, chi per convinzione, chi per non perdere il lavoro, la tessera del partito. L'8 settembre, però, vide tutti i maschi arruolati in una situazione simile. Dante Ansaloni non conobbe probabilmente mai Antonio Bandini Buti, come lui di servizio nel territorio italiano d'oltreadriatico, in Albania. Questa volta Bandini Buti non fu preso prigioniero, come gli era capitato a Caporetto nella Grande Guerra. In compenso, prigioniero degli inglesi fu preso, a Tobruk, il colonnello zio degli Ansaloni, e si passò così qualche anno in un campo in India. Il nonno Bortoli riuscì a tornare dalla Jugoslavia, in qualche modo. Il secondo marito della nonna Ansaloni, che lei ancora non conosceva, fu invece catturato dai tedeschi e mandato al lavoro forzato in Germania. Si conobbero molti anni più tardi, nella valle del Panaro in cui lui abitava, e in cui lei si recava in villeggiatura, avendo da quelle parti un parente prete. Don Renato aveva avuto la vocazione aiutata dalla tisi, che rendeva impensabile l'idea che si sarebbe guadagnato la vita da contadino. La stessa tisi che convinse la diocesi di Modena a spedirlo in montagna, dove l'aria è migliore. Uomo semplice e allegro, bevitore cronico e gran giocatore di carte, affezionatissimo ai suoi parrocchiani, pur tenendosi sempre fuori dal pettegolezzo paesano, don Renato è rimasto per me l'immagine concreta e possibile del buon cristiano.
Alla fine della guerra non c'era parte in conflitto che non avesse, nei suoi campi di prigionia, un gran numero di soldati italiani e un mio parente entro il quarto grado.

I miei si conobbero nella FUCI, l'associazione degli universitari cattolici che, a Bologna, aveva come leader mons. Bettazzi, che li unì anche in matrimonio. Da lì si spostarono a Milano, l'italiana land of opportunities, dove mia madre prese la via dell'insegnamento e mio padre quella della Montedison, all'epoca industria di punta, anche se -si sarebbe visto di lì a pochi anni- imprenditorialmente fragile. La Milano dove sono cresciuto, quella che i miei frequentavano, era vitale e piena di ottimismo. Si facevano figli, si cambiava lavoro, si parlava di riforme da troppo tempo attese: la scuola, l'urbanistica, la sanità, la psichiatria, il Concilio Vaticano; l'uscita dal buco culturale in cui il paese si trovava, prendendo come esempio il Nord dell'Europa. Il piccolo appartamento dei miei era sempre pieno di gente interessante e io ascoltavo affascinato quel poco che, da bambino qual'ero, riuscivo a capire.
Tra le persone che giravano per casa c'era Giorgio Levis, professore e traduttore di inglese da Venezia, che aveva fatto la guerra partigiana fino all'inverno del '44; poi, sciolta la formazione dopo il proclama Alexander, aveva passato il fronte ed aveva risalito il Nord Italia con gli inglesi, in un reparto di sminatori. Aveva degli interessi onnivori: politica, scienza e linguistica soprattutto. Ovviamente aveva partecipato al '68, che fu poi l'occasione in cui conobbe i miei. Contrariamente alla sciocca vulgata che circola su quegli anni, era un professore severissimo (come testiminiano anche i suoi ex studenti su Facebook). Un'altra presenza ricorrente era Bianca Ghiron, insegnante di matematica e collaboratrice di Lucio Lombardo Radice. Anche lei aveva partecipato, a Roma, alla Resistenza, e aveva avuto una vita assai movimentata. Nel '56 era emigrata nella Germania Orientale, perché il suo compagno, ingegnere comunista, non riusciva a trovare lavoro in Italia. Tornarono dieci anni più tardi: pur godendo di un discreto benessere, la vita nella Germania Orientale della Stasi risultava a loro sempre più stretta, mentre in Italia, a partire dal '62, la situazione s'era fatta più aperta e rilassata anche per loro. Bianca, che sapeva e sapeva fare un sacco di cose diverse (aveva dovuto arrangiarsi per tutta la vita, cambiando lavoro in continuazione), mi ricorda molto il nonno contadino e semianalfabeta che, in campo assai diverso, aveva avuto una simile varietà di interessi e mestieri.

I miei fratelli e io eravamo la prima generazione pienamente urbana delle nostre famiglie, senza memoria diretta di un passato contadino. Le più belle vacanze, comunque, erano quelle che passavamo dalla zia Sarina, a Castiglione di Ravenna (in fondo allo sterrato poi chiamato via Antonio Bandini Buti), sorella della nonna Enrica, che continuò a fare la contadina fino alla morte.
L'atmosfera aperta, fiduciosa e piena di progetti in cui crescevamo mi sembrava la normalità. Guardarci dal punto di vista dell'Italia di oggi, così spesso chiusa, sospettosa e ripiegata su dei passati spesso immaginari, fa a volte uno strano effetto.

sabato 12 marzo 2011

La ginestra giapponese



Nella più famosa e mossa tra le sue trentasei vedute del monte Fuji, Hokusai (Edo, 1760-1849) rappresentò il vulcano sullo sfondo di due onde di diversi metri, nell'avvallamento tra le quali due barche in evidente dificoltà cercano non colare a picco. La schiuma quasi grifagna che appare sulla cresta dell'onda maggiore tende come degli artigli verso i poveri pescatori, schiacciati sul fondo della barca per stabilizzarla ed evitarne un fatale ribaltamento.
Nella cultura giapponese, per quel pochissimo che ne conosco, l'uomo non è mai "l'uomo in sé" e nulla è mai per sempre. L'uomo è uomo nella comunità, la comunità è nella natura e la natura è in perpetuo movimento. Il senso della vita sta lì: stare nella comunità e nella natura; scoprire di essere natura e scoprire come stare nella comunità.
La natura è fonte di ogni bellezza e di ogni piacere, oltre che di sostentamento. E' anche pericolosa.
Una comunità saggia non può che accettare questo stato di cose e attrezzarsi, ridurre i rischi, prevenire il prevedibile scarto dalla norma (l'eruzione, il terremoto, il tifone), preparare il soccorso. Ogni persona deve sapere cosa fare.
Questo è ciò che abbiamo sinora visto nel Giappone scosso da un terremoto di magnitudo 8.9 e subito colpito dal conseguente maremoto. I grattacieli sono rimasti in piedi, le maestre hanno accompagnato le loro classi verso luoghi più sicuri predisposti nelle periodiche esercitazioni, le casalinghe hanno spento il gas prima di uscire di casa.
Non tutto era stato previsto. Una diga progettata per maremoti di minore entità ha ceduto e la parte bassa di un paese è scomparsa, insieme a tutti i suoi abitanti. In due centrali nucleari la reazione non s'è automaticamente spenta, il sistema di raffreddamento è stato danneggiato e si teme un processo di fusione del reattore fuori da ogni controllo.
Il danno, però, per quanto spaventoso, è assai minore di quello che terremoti con energia di ordini di grandezza inferiore ha causato a paesi meno previdenti.



Nel 1836, ospite di un amico a Torre del Greco, Leopardi scrisse La ginestra, una lunga canzone in versi sciolti ispirata all'eruzione vesuviana che aveva cancellato Ercolano e Pompei. Erano passati solo pochi anni da quando Hokusai aveva dipinto le sue vedute del vulcano Fuji. Partendo da una posizione pessimista (l'uomo soggetto ai capricci di una natura matrigna), assai diversa da quella che informa buona parte della civiltà giapponese, e con toni pieni di enfasi tutta europea, Leopardi giungeva però a conclusioni simili:
[...]Contra l’empia natura
Strinse i mortali in social catena;

di fronte all'enorme e spesso imprevedibile energia della natura, l'unica sicurezza -per quanto relativa- può essere raggiunta rafforzando i legami comunitari.

In Italia accadono spesso fenomeni naturali tutt'altro che imprevedibili: terremoti di media entità in zone sismiche, frane in zone franose, alluvioni causate da torrenti soggetti a piene periodiche. Spesso, questi eventi producono danni e tragedie al di là di ogni ragione. Passato il lutto e lo scandalo, in cui siamo maestri, mi accade poi di chiedermi: ma quella frana è stata messa in sicurezza, quel letto di torrente è stato ripulito dai detriti, quel patrimonio edilizio viene aggiornato secondo i più moderni criteri antisismici?
Si tratta di opere necessarie e vitali, che però danno poco lustro a chi le delibera, che non si prestano a un bel servizio in televisione. Il mio sospetto è che, spesso, questi lavori non vengano fatti, o che vengano fatti solo a metà. E che molti cittadini (e molti giornalisti), passato il momento dell'indignazione e del lutto, non s'interessino più della cosa. In attesa della successiva frana.

lunedì 7 marzo 2011

Un medico


Essendo la medicina un compendio degli errori successivi e contraddittori dei medici, appellandosi ai migliori di essi si hanno ottime probabilità d'implorare una verità che sarà riconosciuta falsa qualche anno dopo. Dimodochè credere alla medicina sarebbe la suprema follia, se non credervi non ne fosse una ancor più grande, giacchè da questo cumulo di errori si sono sprigionate alla lunga alcune verità. Proust, Alla ricerca del tempo perduto.

Marcel Proust conosceva la medicina non solo attraverso la sua condizione di paziente (fin dall'infanzia soffrì di asma, morendone nel 1922, a cinquantuno anni), ma anche in quanto figlio di un importantissimo medico francesce e fratello di un brillante chirurgo. La frase appena citata, che rappresenta chiaramente la medicina dal punto di vista del paziente cronico, mi ricorda però alcune delle chiaccherate sulla medicina che, in sedici anni di frequentazione, m'è capitato di fare col dott. Angelo Pirazzoli, per gran parte del dopoguerra medico a Toscanella, mio suocero. Il punto di vista di Proust era anche il suo: "La medicina, Nicola, non è una scienza esatta," mi diceva con rassegnazione consapevole, ma anche orgogliosa. Giustamente orgogliosa, perché lui, entro il mobile stato della conoscenza medica e delle tecniche diagnostiche, sbagliava assai di rado e mai su patologie importanti.
Per tutta la sua vita professionale, e anche dopo, il dottore non ha mai cessato di aggiornarsi e studiare, di porre domande agli specialisti e di ascoltarne attentamente le risposte, di informarsi sulle nuove macchine e sui nuovi medicinali; integrando il tutto, e qui sta il semplice segreto della professione, nella sua conoscenza e consuetudine delle migliaia di corpi umani viventi, di ogni età e condizione, che costituivano l'universo professionale e umano dei suoi pazienti. Consuetudine che gli permetteva di parlare con gli specialisti da pari a pari: loro da depositari di una tecnoscienza in vorticoso sviluppo, lui con la conoscenza dei corpi nella loro interezza (fisica, emotiva, pensante), che era inoltre conoscenza di lungo periodo, dalla nascita alla morte. Una milza era per lui una milza in un corpo vivo con una storia.
Fin dai suoi studi universitari preferiva le nascite: conservava gelosamente in una sua particolare scatola, dagli anni in cui ad assistere ai parti erano i medici condotti, tutti i suoi strumenti di ostetricia. L'ultima bambina alla cui nascita contribuì, in sala parto, però, fu mia figlia Angelica.
Dicevo di un segreto semplice, ma è semplice solo da scrivere e pensare. La consuetudine coi pazienti richiede tempo e fatica. Soprattutto, richiede una doppia dose di equilibrio: equilibrio tra l'empatia e il distacco professionale di chi deve osservare oggettivamente; equilibrio tra sicurezza di sé e consapevolezza dei propri limiti (limiti di conoscenza e limiti in ciò che si può e si sa fare). E' un equilibrio faticoso, ho osservato negli anni, che diventa un abito mentale, che non ti lascia mai.
In questo e in altri sensi, il dott. Pirazzoli aveva una personalità segnata dalla professione e una professione indirizzata dalla sua personalità: forte, instancabile, sicura di sé, ma non arrogante. Il suo impegno di medico era indistinguibile dal suo impegno per la comunità, che aveva sempre a che fare con il fatto che era "il dottore". E "il dottore" era anche quando andava a caccia, quando giocava a carte alla bocciofila, quando accompagnava le nipotine all'asilo.
Alcuni mestieri s'impadroniscono più facilmente della personalità di una persona e alcune persone sono più inclini di altre a lasciarsi modellare dal proprio mestiere: in questo io e il dott. Pirazzoli avevamo qualcosa in comune. E non è un caso se le sue figlie, pur tenendosi a distanza dalla professione medica di padre e madre, si sono indirizzate a studi con una forte compnente specialistica e tecnica. Alcune persone riescono a vivere il proprio mestiere, con tutto il suo patrimonio tecnico, come un umanesimo: un attivo e dialogante, ma non totalizzante, punto di vista sulla condizione umana. Nel caso del medico, si tratta di un umanesimo tutto particolare, che riguarda sia il professionista che l'oggetto della sua professione, e di un umanesimo particolarmente importante.
Il dott. Pirazzoli s'è spento dopo una breve malattia il 5 marzo, forse nel modo che avrebbe lui stesso desiderato.

venerdì 4 marzo 2011

Limericks e favole VII



Orfana ballerina di Nonantola,
con la matrigna perfida e tarantola:
calzata di cristallo
lui conquistasti al ballo,
mentre d'invidia l'altra, a cena, rantola.



dal mazapegul