domenica 18 dicembre 2011

Ferrovie imolesi

La gloriosa FS625
Tra gli eventi degni di nota dell'anno 1861, di cui ricorre il centocinquantesimo anniversario quest'anno, m'era sfuggita l'inaugurazione della ferrovia Bologna-Ancona: un manufatto attuale, ma anche un cimelio risorgimentale. Della tratta Bologna-Imola si parla da mesi in paese, con toni anche accesi. Un motivo in più per riandare al passato remoto dei binari in questione.
Il primo atto esecutivo è d'epoca pontificia: il governo del papa attribuì la Facoltà di costruire la strada ferrata al Marchese di Casa Valdes nel 1856, che avrebbe dovuto provvedere alla realizzazione in dieci anni, in cambio di una concessione di novantacinque. Tra 1859 e 1860, però, tutti i territori interessati furono annessi al Regno di Sardegna, che si andava espandendo sotto la guida di Cavour. La ferrovia fu inaugurata l'1 settembre 1861 per il tratto Bologna-Forlì e il 17 novembre nel suo percorso complessivo: nasceva in un'Italia che aveva sei mesi appena. Rimase proprietà di compagnie private fino alla nazionalizzazione giolittiana del 1905.
L'1 settembre 1861 vennero inaugurate anche la stazioni tra Bologna (Km 0+000) e Imola (34+056): Mirandola-Ozzano (10+906), Varignana (16+256), Castel S. Pietro (23+034). Al mutare della società e del territorio, nonostante le distruzioni dell'ultima guerra, l'assetto della ferrovia s'è mantenuto singolarmente costante. La linea è stata elettrificata, quindi computerizzata; gli attraversamenti sono stati messi in sicurezza, ma, fino a pochi anni fa, le stazioni erano ancora quelle del 1861. Nel 2003 la stazione di Mirandola-Ozzano fu avanzata al Km 13+013, perdendo Mirandola nel nome. Nel 2008 fu aperta la stazione a S. Lazzaro di Savena (6+545): il paese di 4.874 abitanti del 1861 era diventato da tempo un quartiere satellite di circa 30.000 abitanti, in piena continuità con la periferie orientale di Bologna.
Curiosa è la funzione che fu di Mirandola-Ozzano, utilizzata nella prima metà del Novecento come "Stazione Porta": adibita, cioè, allo smistamento del traffico merci proveniente dall'Adriatico meridionale verso diverse stazioni e centri di smistamento in Bologna. Lo snodo bolognese, che s'era presto trovato a essere il punto in cui convergono tutte le lineee ferroviarie più importanti della penisola, ha sempre sofferto della scarsità di binari disponiobili presso la Stazione Centrale: cinque solamente a inizio Novecento. Anche oggi, con l'Alta Velocità, Bologna si trova a corto di binari e le Ferrovie dello Stato, seguendo le tradizione, lavorano per aumentarne il numero presso la Stazione Centrale, scavando una seconda stazione sotterranea. Milano, altro snodo ferroviario fondamentale, ha invece una tradizioe ferroviaria diversa, basata su una molteplicità di stazioni collegate in rete, che s'è espressa in anni recenti nella realizzazione di una circonvallazione ferrata, il Passante.

Tramvia Bologna-Imola

A collegare Bologna con Imola c'era da tempo immemorabile la via Emilia, parallelamente ad essa la ferrovia Bologna-Ancona e,a partire dal 1886, una tramvia che affiancava la statale, di cui qualcuno in paese ancora ricorda il passaggio, o sa identificare le opere accessorie. La tramvia permetteva di percorrere i 37.5 Km tra Imola e Porta Mazzini a Bologna in un'ora e mezza: poco più tempo di quanto oggi riesce a fare la linea 101 dell'ATC. La linea ferrata era proprietà della Società Veneta, privata; il vettore era il locomotore a vapore della fotografia qui sopra. Allo scadere della concessione cinquantennale, nel 1935, non avendosi provveduto all'elettrificazione, la linea fu abbandonata e sostituita da un servizio di corriere; più in linea con la filosofia del "su gomma" dei trasporti che sarà di gran parte del Novecento, e che ridurrà il movimento dei pendolari all'incubo di traffico che ben conosciamo.
La tramvia aveva una stazione a Dozza, così come oggi, sul nostro comune, esistono fermate del 101 che permettono di raggiungere il centro di Bologna in un'ora; come a fine Ottocento trainati da una locomotiva a vapore.

Concessione per la ferrovia Massa Lombarda - Fontanelice.

Un altro tratto di strada ferrata dell'imolese, oggi scomparso, era la linea ferrioviaria che da Massa Lombarda raggiungeva, attraversando Imola, Fontanelice. Il prolungamento per Castel del Rio, pur nei progetti, non fu mai realizzato. La tratta Imola-Fontanelice fu inaugurata nel 1914, realizzata dalla milanese Società Italiana Ferroviaria Anonima Costruzioni ed Esercizi (SIFACE). Trasformatasi in Santerno Anonima Ferroviaria (SAF) nel 1924, procedette all'attivazione del tronco Imola-Massa Lombarda nel 1934. I danni riportati nel 1944, quando il fronte s'era fermato sul Senio, indussero la SAF a rinunciare al trasporto su ferro, per passare a servizi su gomma, che vennero mantenuti sino al 1973.


Fonti: wikipedia, Provincia di Bologna, Treni di Carta, Archivio Storico Imolese...

venerdì 29 aprile 2011

Filastrocca marinara




E' arrivato un capitano
dallo sguardo un poco strano,
è arrivato con suo figlio
su uno strano, gran naviglio.
Ha degli occhi spenti e buoni
e una barba nera e folta
alla moda d'una volta,
ha dei calli sui manoni.
La sua nave vola via
sulle onde senza scia:
una cosa così strana
da parere quasi arcana.
Gli offro un fiasco di buon vino
per sentirlo raccontare
per che via, per quale mare
sia approdato qui vicino.

"Molti anni ho navigato
per l'oceano salato,
trasportando merci e genti
per i quattro continenti;
finché un giorno non fui giunto
nel Mar Nero ed a quel punto
l'equipaggio stanco morto
volle fare sosta in porto."

Beve, beve il capitano,
mentre il figlio con la mano
della barba i fili intreccia
fino a farne lunga treccia.

"Fu nel bel porto d'Odessa
ch'io conobbi quell'ostessa
di cui, presto ricambiato,
mi trovai innamorato.
Senza fretta, ma con danno,
rimanemmo a Odessa un anno.
Quale danno spiegherò
se dell'altro vino avrò."

Beve, beve il capitano,
mentre il suo catamarano,
pur essendo il mare mosso,
resta fermo, e io non posso
ben comprender come faccia:
tutto rolla, e lui in bonaccia.

"Era incinta la mia ostessa,
cittadina lei d'Odessa,
mentre io, che ero inglese
fui cacciato dal paese.
Mi cacciarono da terra
perché aveva mosso guerra
il paese ove son nato
a quel che m'avea ospitato.
Me ne andai la notte stessa,
lì lasciando la mia ostessa,
e ripresi a navigare
ed a correre ogni mare.
Feci rotta per la Cina,
poi, parendomi vicina,
mi portai in Indonesia,
poi in Birmania, poi in Malesia.
Ma non c'era porto o sosta
che non arrivasse posta:
la mittente era la stessa,
'Olga Ivanovna, ostessa':
'Sai, è nato un bel maschietto,'
mi rigiro io sul letto,
'in tuo onore, capitano,
l'ho chiamato Ivan Gabbiano.'
Sappia, infatti, che di nome
son John, Seagull è il cognome."

Beve, beve il capitano,
e il suo sguardo va lontano.
La sua mente in mar s'è messa,
si dirige verso Odessa.

"Non potevo io aspettare
che una tregua o pace vera
mi lasciasse ritornare
alla madre e locandiera.
Travestito da argentino
noleggiai un brigantino.
Non ci volle un mese intero,
ch'ero giunto al Mare Nero.
Arrivai infine a Odessa,
ritrovai la sua locanda:
stava lì sulla veranda,
allattando, la mia ostessa.
Furono giorni felici,
vidi anche i vecchi amici:
marinai, armatori,
cuochi, attrici e traditori.
Tra questi ultimi un serpente
si rivolse a un sergente
della polizia d'Odessa,
che arrivò la notte stessa.
Mi portarono in prigione,
come spia e come nemico;
quanto triste non le dico
fu lasciar la mia pensione.
Mi volevan fucilare,
ma poi furono contenti
di lasciarmi anni venti
nella torre in riva al mare.
Nella cella, poco dopo,
incontrai un grosso topo,
che assieme a un vecchio ragno,
mi fu unico compagno.
Di lì in capo a pochi anni,
per vecchiaia e malattia,
lasciai loro e i miei affanni
senza la mia compagnia.
Il mio corpo fu sepolto,
però l'anima ribelle
fu all'idea che mi fu tolto
Ivan, e uscì dalla pelle.
Mi recai dalla mia ostessa,
nel suo bar in centro a Odessa,
e convinsi lei e il figlio
a seguirmi sul naviglio.
Un naviglio che vedrete,
se degli occhi buoni avete,
nelle notti senza luna
navigare alla fortuna."

Con la manica asciugò
le sue labbra e salutò,
poi col figlio uscì sul molo;
li seguii, ma lì ero solo.
Era notte di uragano
e mi parve molto strano
tra la nebbia ed il miasma
di veder, quasi fantasma,
una nave che correva,
senza scossa, né rollio,
come fosse del mar dio,
e nel mare si perdeva.
Credermi, lo so, è duro:
al timone è il capitano,
tiene stretta per la mano
una donna in velo scuro.

dal mazapegul

domenica 17 aprile 2011

Parole e suoni: vocali



Un gioco facile, divertente per i bambini e forse anche istruttivo, consiste nel costruire delle frasi utilizzando una sola vocale; poi, di cambiare la vocale per il puro gusto fisico dei suoni che così vengono prodotti. Ecco un esempio con la E:


Se leggete ben che c’è,
ne vedrete delle E.

“Se per delle spesette sceme spende,
né le mele, né le pere le prende.”


Guarda quà, guarda là,
siam finiti nella A.

“Sa par dalla spasatta sciama spanda,
nà la mala, nà la para la pranda.”

Oh, la A non c’è più,
cancellata dalla U.

“Su pur dullu spusuttu sciumu spundu,
nù lu mulu, nù lu puru lu prundu.”

Dove siamo non lo so,
però vedo delle O.

“So por dollo sposotto sciomo spondo,
nò lo molo, nò lo poro lo prondo.”

Firulilà, firulilì,
sento suonare tantissime I.

“Si pir dilli spisitti scimi spindi,
nì li mili, nì li piri li prindi.”


Le prime due strofe sono costruite con parole contenenti la sola vocale E. Le altre si ottengono dalla seconda sostituendo alla E una diversa vocale. Lo stesso gioco può essere fatto con la I:


Dimmi, dì,
i bisticci in I.

"Tiri i birilli,
strizzi i mirtilli,
bisticci, strilli,
dipingi i nidi:
dì, di chi ridi?”

La I sparirà,
rimpiazzata dalla A.

"Tara a baralla,
strazza a martalla,
bastaccia, stralla,
dapangia a nada:
dà, da ca rada?”

La A, io lo so,
cede il posto a una O.

"Toro o borollo,
strozzo o mortollo,
bostoccio, strollo,
dopongio o nodo:
dò, do co rodo?”

Questa O, non so perché,
si trasforma in una E.

"Tere e berelle,
strezze e mertelle,
bestecce, strelle,
depenge e nede:
dè, de che rede?”

Ma le E scendendo giù
Suonan come tante U.

"Turu u burullu,
struzzu u murtullu,
bustucciu, strullu,
dupungiu u nudu:
dù, du cu rudu?”


Ecco una strofa con la A (la I appare senza suono, con il solo scopo di produrre il suono "c" dolce):


L' anatra scappa alla laccia,
la cagna la caccia.
La rana mangia l’alga,
la vacca va alla malga.
Ma sarà già nata
La cavalla alata?


Per finire, una strofetta paurosa e puzzolente:


Odo 'l toro,
odoro 'l porco;
no, non dormo
o sogno l'orco.


Come produrre le frasi? Facilissimo: si segnano su un foglio quante più parole contenenti una sola vocale; quindi si procede a scrivere, cercando di salvare sintassi e grammatica. Il senso, ovviamente, è la prima vittima del gioco.

dal mazapegul

martedì 12 aprile 2011

Geometria non euclidea


Forse meno popolare di altre rivoluzioni scientifiche, quella delle geometrie non euclidee è però legata ad altre meglio conosciute, almeno di nome. Ha un nesso stretto con la teoria della relatività generale di Einstein, per esempio. Più importante, la maniera in cui la comunità scientifica pensa oggi alla "geometria" è figlia della rivoluzione non euclidea. Avendo fatto di recente delle letture in merito, per ragioni di lavoro, ho imparato qualcosa di questa storia.
TESI. La teoria ortodossa. In principio c'è la Geometria, che è poi la teoria maturata tra Medio Oriente e Grecia classica per venir infine mirabilmente organizzata da Euclide (attivo ad Alessandria d'Egitto, a cavallo tra IV e III sec. a.C.) nel suo fortunatissimo libro, gli Elementi. La geometria del piano, per Euclide, s'incardina su pochi principi che, per accorciarne l'esposizione, enuncio in termini moderni (ottocenteschi):
(i) per due punti di un piano passa una e una sola retta;
(ii) ogni retta divide il piano in due parti;
(iii) le figure possono essere mosse "liberamente" nel piano: ruotate attorno a un punto, trascinate da una regione all'altra del piano;

(iv) se c è una retta nel piano e se P è un punto che sta al di fuori di essa, allora esiste un'unica retta b passante per P che è parallela a c.
L'elemento fuori posto. Lo stesso Euclide considerava l'affermazione (iv) (che negli Elementi appare come V Postulato) come sgradevole. Prima di introdurla, infatti, dimostra a partire da (i), (ii) e (iii) un gran numero di teoremi che non richiedono di dare (iv) per scontato. Il motivo per cui (iv) (o meglio, una proprietà ad esso equivalente) veniva considerata poco naturale è che i postulati (le affermazioni che si danno per vere senza dimostrazione) dovevano avere una chiara evidenza, vuoi empirica, vuoi ideale (vuoi aristotelica, vuoi platonica). Il V postulato, poiché richiede, per essere verificato, di considerare le rette nella loro interezza (per verificare se siano o meno parallele; cioè se si incontrino o meno), pareva non possedere questo requisito.
Per più di duemila anni vi furono tentativi di dimostrare il V postulato a partire dalle proprietà (i)-(iii). Si giunse abbastanza in fretta a concludere che, valendo (i)-(iii), almeno una parallela a c che passi per P ci deve essere. Il problema era mostrare che fosse anche unica. Provarono e fallirono, assai brillantemente, greci, latini, arabi ed europei.
Due secoli di geometria fantastica. Le dimostrazioni avevano più o meno tutte la stessa idea di partenza. Si supponeva che il V postulato fosse falso, che, cioè, per P passassero due rette parallele alla retta c. Si cercava poi di arrivare a una qualche contraddizione con le affermazioni (i)-(iii): si sarebbe così dimostrato che, se si volevano salvare (i)-(iii), non si poteva negare (iv). Cioè, (iv) è conseguenza di (i)-(iii).
Bene, negando (iv) alcuni matematici, più e meno professionali, arrivarono a delle vere e proprie mostruosità, a delle geometrie deformi e inaccettabili. E' a partire dal '600 che questo tipo di analisi inizia ad andare veramente a fondo. Quello che va più a fondo di tutti è padre Gerolamo Saccheri (Sanremo, 5 settembre 1667 – Milano, 25 ottobre 1733), gesuita e matematico. Alcune delle conseguenze che Saccheri e altri dedussero dalla negazione del V postulato sono:
(o) la somma degli angoli di un triangolo è sempre inferiore (!) a due angoli retti [Saccheri];
(a) due triangoli con i lati in proporzione sono uguali, o hanno anggoli diversi (non è possibile, cioè, ridurre un triangolo a una scala più piccola o ingrandirlo a una scala più grande!) [Saccheri];
(b) l'area di un triangolo non può superare un certo limite (finito!);
(c) dati tre punti A, B , C non allineati, non è detto che si possa far passare una circonferenza per essi.
Mostruosità dopo mostruosità, Saccheri giunse a una conclusione che gli parve "ripugnare alla natura della linea retta," e decise che lì finiva la sua opera. Probabilmente non ci credeva ed era insoddisfatto, non avendo trovato, tra tante bizzarrie, una contraddizione vera e propria. Padre Saccheri era infatti un matematico rigorosissimo.
ANTITESI. Rivoluzione! Indipendemente uno dall'altro, ma probabilmente influenzati (indirettamente) da Sccheri, un matematico russo, Nikolaj Lobachevsky (Nižnij Novgorod, 1 dicembre 1792 – Kazan', 24 febbraio 1856), e uno ungherese, Jàanos Bolyai (Cluj-Napoca, 15 dicembre 1802 – Târgu Mureş, 27 gennaio 1860), rovesciarono i termini della questione. Partirono dall'ipotesi che il V postulato di Euclide fosse falso e costruirono, in base a questa affermazione (e a (i)-(iii)) tutta una geometria non euclidea (quella oggi chiamata iperbolica); per alcuni versi simile, per altri del tutto difforme da quella classica e prestigiosa di Euclide. I mostri di Saccheri e di altri matematici diventavano così teoremi della nuova e barricadera geometria. Anche il più grande matematico di tutti i tempi, Carl Friedrich Gauss (Braunschweig, 30 aprile 1777 – Gottinga, 23 febbraio 1855) aveva mentalmente costruito la geometria non euclidea, ma non aveva pubblicato niente, per paura delle possibili polemiche, e anche i suoi numerosi taccuini non contengno uno sviluppo completo della teoria.
La decisione su quale geometria fosse quella vera sarebbe forse spettata a questo punto agli astronomi, che avrebbero potuto cercare nell'universo grandi triangoli i cui angoli sommassero meno di due angoli retti.
In realtà, tra i pochi matematici che considerarono i lavori di Bolyai e Lobachevsky, la più parte erano convinti che, negando il V postulato di Euclide, si sarebbe fatalmente prodotta qualche contraddizione; come aveva sperato del resto padre Saccheri con un gran numero di scienziati d'ogni epoca.
Non euclideo è meglio? Una delle caratteristiche più notevoli dell nuova geometria era la presenza di lunghezze assolute. E' noto che nella geometria ordinaria, euclidea, non esistono lunghezze assolute. Per questo usiamo un'unità di lunghezza convenzionale come il metro (1/40.000.000 della circonferenza terrestre all'equatore). Se la geometria fosse non euclidea, invece, delle lunghezze "assolute", cioè intrinseche allo spazio stesso (non scelte ad arbitrio), esisterebbero. Per esempio, ci sarebbe un limite massimo al raggio della circonferenza che si può iscrivere in un triangolo. Queste grandezze assolute, che diventerebbero unità di misura assolute, sono un pò il Graal dei ricercatori, dei fisici in particolari. La carica dell'elettrone e la velocità della luce sono esempi abbastanza popolarizzati. Se dell'universo c'interessa la sola Terra, allora la circonferenza della Terra all'equatore sarebbe una buona unità di misura assoluta. Ma gli umani, animali curiosi e inquieti, non s'accontentano della Terra soltanto, che hanno con Copernico escluso da ogni ruolo protagonista.
Le lunghezze assolute della geometria non euclidea sono legate alla nozione di curvatura dello spazio e, come il nome può forse suggerire, si apre qui il sentiero verso la relatività generale (e i motori dell'Enterprise in Star Trek).
Riflusso. Idealmente, si avevano due teorie contrapposte, quella euclidea e quella non euclidea, pronte a scontrarsi in campo aperto. La posta: la descrizione dello spazio. Lo spazio fisico, quello della meccanica newtoniana; ma anche lo spazio filosofico, quello che Immanuel Kant aveva stabilito, nel secolo precedente, come uno degli a priori della Ragione Pura. La realtà fu più modesta. Le geometrie non euclidee passarono quasi inosservate, la comunità matematica, scientifica e filosofica, saldamente euclidee, non si scossero più che tanto. Il conflitto si spense prima di iniziare e Lobachevsky e Bolyai precipitarono in un veloce oblio.
SINTESI. La nascita della geometria moderna. In realtà, il riflusso non era stato così completo. Bernhard Riemann (Breselenz, 17 settembre 1826 – Selasca, 20 luglio 1866), uno dei più profondi matematici di sempre, nella sua tesi d'abilitazione del 1854, su titolo indicato dallo stesso Gauss, aveva rivoltato la geometria dalla testa ai piedi. Partendo da idee che non erano solo matematiche, ma anche fisiche e filosofiche, aveva ampliato l'orizzonte da una geometria (la geometria, euclidea o meno che fosse) a un'infinita moltitudine di geometrie, tutte da tenere in considerazione; vuoi per aggiornare la descrizione dello spazio al mutare delle conoscenze scientifiche, ma anche per una molteplicità di altri utilizzi (per cui, infatti, tutte queste geometrie riemanniane vengono oggi utilizzate). Casi particolarissimi delle geometrie di Riemann erano quella euclidea e quella non euclidea.
Beltrami: il V postulato non è dimostrabile dagli altri. La tesi di Riemann fu pubblicata postuma nel 1866 ed ebbe prima d'allora scarsa eco. Eugenio Beltrami (Cremona, 16 novembre 1836 – Roma, 18 febbraio 1900), prima che dalla tesi di Riemann, fu influenzato dalla pubblicazione dei taccuini di Gauss, che lo spinsero a cercare dei "modelli concreti" della geometria non euclidea. Ciò fece in due articoli assai influenti sulla geometria a venire, pubblicati nel 1867 (sotto il segno di Gauss) e 1868 (sotto il segno di Riemann).
Beltrami inventò in effetti tre modelli, uno dei quali sviluppava una breve formula di Riemann. E' quello che sta all'origine della stampa di Escher che trovate qui sotto. Descrivo brevemente il modello. Il "piano" è l'interno di un disco di raggio uno. Le "rette" sono sgmenti di retta o archi di circonferenza che sono perpendicolari al bordo del disco. Basta fare un paiodi disegni per vedere che, in questa interpretazione, le proprietà (i) e (ii) valgono, mentre la proprietà (iv), il V postulato di Euclide, non vale. Per verificare la proprietà (iii) bisogna parlare di movimenti "rigidi", che conservano le distanze tra punti di una figura; quindi di distanza tra punti. Questo è un pò più tecnico e va la di là di un post che non vuol essere matematico. Basti, per avere un'idea, sapere che gli uccelli che Escher ha disegnato nel disco hanno, rispetto alla "distanza di Beltrami", esattamente le stesse dimensioni. Ai nostri occhi euclidei, che guardano al piano non euclideo di Beltrami da fuori, essi hanno invece dimensioni via via più piccole, mano a mano che vanno verso il bordo.
Ora, chiunque creda nella geometria euclidea (che ci dà il disco, gli archi e i segmenti) e sappia fare due conti con la distanza di Beltrami, può verificare che, all'interno del piano euclideo, abbiamo una famiglia di curve che verifica tutti i postulati della geometria non euclidea. Quindi, la geometria non euclidea non conduce a contraddizioni! (A meno che non sia la stessa geometria euclidea a essere contraddittoria, ciò che, ai tempi di Beltrami, nessuno credeva possibile).
In particolare, possiamo negare il V postulato di Euclide senza trovare mai nulla di assurdo: i tentativi di padre Saccheri, pur così fruttuosi in altro modo, erano in definitiva destinati al fallimento.
Il lavoro di Beltrami, in qualche modo, spostò completamente il centro del dibattito su euclideo/non euclideo. Entrambe le geometrie sono ugualmente coerenti e senza difetto logico: simul stabunt vel simul cadent. Il dibattito su quale delle due fosse la migliore e la più vera, quindi, non riguardava più la matematica; ma la filosofia, la fisica, la neurofisiologia. Infatti, a tutt'oggi c'è in queste discipline un continuo dibattito sulla geometria del cosmo (è ancora euclidea, alle scale ora osservabili), sulla geometria della Ragion Pura (e qui i filosofi guadagnano il loro stipendio disaccordandosi), sulla geometria con cui il nostro cervello percepisce e ordina il mondo là fuori, di per sé caotico e inconoscibile.

























PS Una proprietà della geometria non euclidea è che l'area dei cerchi cresce esponenzialmente col raggio (non solo col quadrato del raggio, come fanno modestamente i cerchi euclidei). Ciò torna utila a tutti quegli organismi che, come i coralli, hanno bisogno di esporre alla corrente grandi superfici, utilizzando poco volume. La formazione corallina dell'immagine che apre il post è, geometricamente parlando, un puzzle di frammenti di piano non euclideo, che in poco raggio sviluppano tanta superficie.

sabato 2 aprile 2011

Limericks e favole XI



Ebbe un'infanzia triste senza coccola,
quella gran bella verza, all'Alpe Noccola.
Nata in mezzo ai pomodori
e non con i cavolfiori,
le dicevan: "Sei la brutta e nana broccola".

dal mazapegul



venerdì 1 aprile 2011

I limericks



Il limerick è un componimento poetico dalla struttura rigida assai. Originario dell'Inghilterra, le sue radici sono oscure. Di sicuro si sa che il nome viene dall'omonima città di Limerick, in Irlanda. Nei limericks sia la metrica, che il contenuto devono soddisfare a delle prescrizioni.
Metrica. Il limerick si compone di cinque versi che rimano AABBA. I versi A sono più lunghi, quelli B più brevi. In un tipico limerick italiano si possono avere versi A endcasillabi (accento sulla decima sillaba) e versi B settenari (accento sulla sesta sillaba).
Contenuto. Il primo verso deve finire con un nome proprio di luogo, che dev'essere anche la fine dell'ultimo verso. Il primo verso presenta un personaggio; il secondo descrive la situazione di partenza; il terzo e il quarto sviluppano la vicenda; l'ultimo verso fornisce una morale o una conclusione.
Ecco un esempio:

Un diavolo sporchissimo di Dozza
mi ruba il maglione e me l’insozza;
ma io prendo il sapone
e lavo il mio maglione
e il diavolo ora pulito di Dozza.

Con tutta la sua rigidità, il limerick non può essere che ironico, spesso addirittura privo di senso comune. Ho letto dei limericks dal fondo agro, ma facevano comunque sorridere.
Una volta fissate le regole per comporre un limerick, è bello modificarle o violarle. Nei limericks e favole che trovate su questo blog le regole aggiuntive erano: (i) l'ultimo verso deve riprodurre, modificato in un paio di lettere al più, il titolo di una fiaba, su cui (ii) il testo del limerick deve avere qualche riferimento. E' più semplice comporre con dei versi pari (decenari, ottonari), piuttosto che con versi dispari.
Come spesso accade, è proprio la rigidità estrema ad aprire la pista alla fantasia, la costrizione a liberare la mente. Nell'assenza di vincoli, in piena libertà di forma, la gran parte di noi precipita immediatamente nell'ovvio e nello scontato. I ragazzi che scrivono sulle pensiline degli autobus i loro messaggi a pennarello vanno spesso poco al di là di un piatto "ti voglio bene", abbreviato in TVB, al più rafforzato in TVTB (ti voglio tanto bene) o TVTTB, e via T'aggiungendo. Il massimo di libertà coincide qui col minimo di liberazione. Fino a giungere al disperato (e disperante) "ti amo più del'aria che respiro", scritto evidentemente da persona che non mai sofferto d'asma, né ha provato il brivido dell'apnea in mare.
Scrivere liberamente in verso libero è cosa che riesce solo ai poeti. Avere dei vincoli, per noi comuni mortali, costringe invece a cercare in cataloghi poco frequentati di parole, a inventare, rabberciando rime sfuggenti da ogni parte, situazioni e storie che, pensandoci su liberamente, non avremmo mai immaginato.

Maestro dei limericks fu lo scrittore e illustratore Edward Lear (1812-1888), famoso soprattutto per i suoi nonsense verbali. I limerick illustrati qui sotto vengono dal suo LIbro del nonsense.



Per vivere, comunque, Lear faceva anche illustrazioni più sensate, anche se meno divertenti:


Ecco un bel sito italiano dedicato ai limericks, ricco anche di link. In rete ci sono alcune edizioni del Libro dei nonsense, con tanto di componimenti e illustrazioni.

mercoledì 30 marzo 2011

Limericks e favole X



Fece un'orsa polare di Bethel
un igloo di cassate a zia Ethel:
voleva la zia
che -persi per via-
arrivassero li' Hansel e Grethel.

dal mazapegul



martedì 29 marzo 2011

Limericks e favole IX



Tre re dell'isola di Santorini
le mani han nel ragù fino ai polsini.
Un cameriere attonito
(respinge a stento il vomito)
osa pensar: "Ecco i re porcellini."

dal mazapegul



mercoledì 23 marzo 2011

Primo Casalini: un ricordo


Un anno fa, il 16 marzo 2010, moriva Primo Casalini, di cui ero amico e alle cui attività in rete avevo collaborato -senza il suo talento e senza costanza- per qualche anno. Ci eravamo conosciuti nel 2002, ai tempi dei movimenti politici neo-ulivisti, ma la nostra amicizia era poi cresciuta ad abbracciare altri interessi. Ci siamo incontrati di persona meno di dieci volte in tutto, ma eravamo in continuo contatto per via di posta elettronica.
Solimano, il nick di Primo, era un ingegnere dell'IBM prepensionato durante una delle tante ristrutturazioni della multinazionale. Veniva da una famiglia operaia emiliana, il padre era ferroviere, ma abitava da tempo a Monza. Alla solida preprazione degli ingegneri, Solimano univa una curiosità onnivora per la cultura, una preparazione quasi professionale nell'arte e un pensiero sempre in movimento, libero e creativo, ma anche critico e rigoroso. Per Primo la cultura non era un interesse in sé, ma un modo per stare nella vita; un punto di vista sulle cose grandi e su quelle piccole; il tratto comune a un piatto di tortellini, alla difficoltà di rapportarsi con gli altri, a un paesaggio intravisto dal finestrino d'un treno. Credeva che tutto ciò non fosse campo esclusivo dei filosofi e degli artisti, che riconosceva come maestri, ma che potesse e dovesse essere alla portata di chiunque.
Ciascuno di noi, avendo di tanto in tanto esperienze intense e possedendo un linguaggio, è in grado di scrivere cose interessanti e istruttive, di valore universale. Non sarà necessariamente arte o letteratura, certo, ma nel mondo di internet non c'è più la necessità di pubblicare: tutti possono scrivere per un pubblico sconfinato. Il fatto che ciò avvenga senza spese e senza grande sforzo editoriale, però, non deve indurre alla sciatteria e alla vuota chiacchera. Ha senso scrivere solo se si guarda alla qualità. La qualità, scrivendo in rete, è la considerazione per quelli che leggono e, quindi, lo sforzo di scrivere con verità. Sulla verità, ciascuno di noi è giudice di sestesso: l'importante è essere giudici critici e sinceri. E scegliere bene le immagini.
Spero di aver riassunto fedelmente lo spirito della teoria che Primo aveva più volte illustrato al piccolo e mutevole gruppo dei suoi collaboratori.
Tra le iniziative di Primo vi sono diversi blog. Uno di quelli che lui amava di più era abbracci e popcorn, un blog di cinema che, in poco più d'un anno, aveva fatto un milione e mezzo di visite. Doveva essere un blog sul cinema come lo si vede da spettatori, non da critici, né da lavoratri del cinema. Era andato, secondo me, ben al di là di questo obiettivo iniziale. Rimando, in quel blog, a un bellissimo pezzo di Primo sulla pittura nel Decameron di Pasolini. Tipicamente, Primo vi analizza minutamente la maniera in cui Pasolini aveva cercato di rendere attuale e cinematgrafica la visione di Giotto, facendo dialogare diverse epoche e mezzi artistici, come spesso accade nella poetica pasoliniana.
Primo era anche impegnato nella sua Monza: aveva contribuito a creare diverse associazione di successo e collaborava spesso alla bella rivista monzese online Arengario, tutt'ora vitalissima.
Scrivo qui di Primo non solo per l'amicizia che ci legava e per gratitudine per tutto ciò che, soprattutto in campo artistico, ho imparato da lui; ma anche perché -curando questo blog per l'associazione Incontri- ho saccheggiato le sue idee in merito ai blog e persino l'impostazione grafica particolare. In rete si trovano diverse cose scritte in ricordo di Primo; metto il link a quella che scrissi per avvisare i naviganti che Abbracci e Popcorn s'era interrotto per una ben triste causa.

martedì 22 marzo 2011

LImericks e favole VIII




Un gigante di Castiglion Fibocchi
infestato dal capo fino agli occhi
da mille falegnami
coi loro figli strani,
la testa si grattava dai Pinocchi.

dal mazapegul




venerdì 18 marzo 2011

La rovina del giocatore e il nucleare


Mentre si attende con ansia (per i giapponesi) di sapere se la parziale fusione del nocciolo in diversi reattori nucleari possa venir messa sotto controllo, ciò che tutti sperano, si riaccende il dibattito sul nucleare in tutto il mondo, Italia compresa. La parte più importante del dibattito riguarda la sicurezza. La domanda cruciale è: cosa vuol dire "sicuro" quando si parla di impianto nucleare civile?
L'incidente nucleare in Giappone è l'effetto secondario di circostanze rarissime e enormemente tragiche. Quanto devono essere tenute in conto le circostanze rarissime, quando si parla di sicurezza?
Il problema andrebbe rovesciato dalle circostanze ai loro effetti. Cosa possaimo dire nel caso in cui, come adesso in Giappone, ogni sistema di sicurezza (e ce n'erano molti) imprevedibilmente fallisce lo scopo? Alcuni dicono che la domanda, ai fini della sicurezza, non ha senso. Io credo che, invece, lo abbia. Riformulo la domanda: se tutti i sistemi di sicurezza falliscono, c'è qualcosa che può essere fatto? C'è un limite accettabile alla catastrofe?
Quello che stanno facendo un centinaio di eroici tecnici in Giappone è proprio, con gravissimo rischio per la propria vita, cercare di rispondere concretamente alla prima domanda, sospettando che la risposta alla seconda domanda -un possibile fallout radioattivo su Tokio- sia inaccettabile.
A chi ritiene il problema della sicurezza-al-di-là delle misure di sicurezza un controsenso, obietto che questa situazione è uno dei cardini della teoria elementare delle probabilità.
Avrete spesso sentire qualche conoscente esporre la strategia del raddoppio per giochi d'azzardo. Prendiamo testa-o-croce. Punto un euro. Se perdo, gioco due euro. Se perdo ancora raddoppio a quattro, e via andando. Non appena vinco, rimedio tutte le perdite precedenti, più il guadagno di un euro. Se ho una scorta di euro abbastanza grande, posso resistere al raddoppio per decine di tentativi. Per la legge dei grandi numeri, la probabilità di perdere decine di volte di seguito è infima. Quindi, con ragionevole certezza sono sicuro di uscire con il mio euro di vincita (anche in caso di moneta truccata!).
Il diavolo sta nella probabilità infima. Infatti, se mi fermo prima di aver vinto un euro, ho accumulato solo perdite. Devo quindi procedere. Se arrivo al punto di esaurire il capitale, ho perso tutto nel tentativo di vincere un euro (mille euro circa per dieci tentaivi, un milione per venti e così via; se la moneta non è trccata). Ora, è razionale questa strategia?
I probabilisti formalizzano il tutto sotto la nozione di "guadagno medio" (che nel gioco appena descritto è nullo) per mostrare che, fatalmente, uno che giochi con questo schema finirà in rovina: chiamano questo il Teorema della Rovina del Giocatore. Da un punto di vista meno teorico, vediamo bene che le conseguenze nel caso sfortunato (la rovina totale) sono inaccettabili, pur essendo improbabili, rispetto ai molti casi fortunati (in cui guadagno un modesto euro).
I sostenitori del nucleare a uso civile devono mostrare che il caso residuo, quello molto sfortunato, non è "la rovina del giocatore". Che, esaurite le misure di sicurezza, non è la fine di Tokio, o di Parigi, o di Milano. Umberto Veronesi, un difensore sensibile e intelligente del nucleare, lo ha capito subito. Molti altri difensori del nucleare, vuoi perché meno intelligenti, vuoi perché meno sensibili, non l'hanno capito per nulla.

giovedì 17 marzo 2011

La storia d'Italia nell'albero di famiglia


Molti anni fa, facevo i miei studi di dottorato a St. Louis, leggendo un libro inglese di storia europea mi apparve improvvisamente ovvio ciò che per anni avevo considerato ostico e dubbio: come, cioè, le vite degli individui e delle famiglie siano quasi determinate dalle condizioni storiche in cui vivono. Che la libertà di scelta, addirittura la libertà di pensare, sono ristrette entro limiti assai ristretti, che solo poche persone -per bizzarria loro o di particolarissime circostanze- riescono a superare. Gli individui a cui stavo pensando erano il gruppetto di cognomi e generazioni dell'albero di famiglia di cui conoscevo qualcosa: Arcozzi, Ansaloni, Bandini, Bortoli; qualche decina di italiani e italiane, vissuti tra la fine del secolo XIX e il presente. Al momento dell'unità d'Italia, queste quattro famiglie lavoravano tutte la terra, quasi sempre terra altrui, e avrebbero continuato a lavorarla per almeno altri cinquant'anni. Da quel che si sa, per secoli erano rimaste ancorate ai paesi dove si ritrovavano al momento dell'Unità. Anche uno sguardo veloce alla distribuzione attuale dei cognomi testimonia di scarsa mobilità, probabilmente tutta o quasi d'epoca industriale. Famiglie contadine e padane, sparse tra il Ducato di Modena, lo Stato della Chiesa e i domini della Serenissima.

Gli Ansaloni, la famiglia della nonna materna, sono quelli dalla storia più documentata, facendo parte delle ventidue famiglie della Partecipanza di Nonantola, istituita dall'abate Gottelscalco nel 1058 e ancora in funzione. L'abbazia aveva dato delle terre in concessione perpetua, in un'epoca in cui la popolazione era la la maggior forma di ricchezza. Non so a quale punto gli Ansaloni entrarono nell'enfiteusi; sicuramente erano lì nel 1584, quando la partecipanza venne ristretta a ventitrè cognomi, uno dei quali estinto. Periodicamente la terra viene riunita e ridivisa tra gli eredi: una forma di proprietà comunitaria assai peculiare, sul nostro territorio rappresentata dalla partecipanza di Villa Fontana, a Medicina.
Il bisnonno Ansaloni coltivava la terra della partecipanza e anche della terra di proprietà: era un contadino benestante, conservatore e clericale. Lui e sua moglie, però, capirono bene l'importanza degli studi, sia per i maschi che per le femmine: le tre figlie e i tre figli passarono quasi tutti dalla condizione contadina a quella di impiegati dello stato, il nucleo forte, soprattutto in campagna, del ceto medio nell'Italia Unita. Medico, colonnello dell'esercito, maestra, impiegata alle poste i più svegli; aspirante suora (senza successo per la scarsa attitudine, non per l'assenza di vocazione) e assistente ospedaliero quelli un pò più tonti. Ovviamente, quando arrivò il fascismo questi ragazzi si ritrovarono fascisti come gran parte del ceto medio pubblico; lo fecero con un sovrappiù di entusiasmo e di clericalismo reazionario. Mia nonna ricordava sempre con gran rimpianto il Duce, con meno rimpianto Giovanni XXXIII.
La nonna aveva sposato un Bortoli, impiegato comunale con simpatie vagamente socialiste. La famiglia, contadini della bassa modenese, era di lontana origine veneta. I suoi interessi erano la storia paesana e, pare, le belle donne. Avendo una personalità assai più debole di quella della nonna, coltivò sempre la prima passione con lo stesso segreto con cui coltivava la seconda.
Le loro figlie, mia mamma e mia zia, erano quindi di condizione pienamente piccolo-borghese e, ovviamente, proseguirono gli studi oltre l'obbligo.

Dalla parte paterna s'era rimasti indietro nella storia. Sia gli Arcozzi che i Bandini erano contadini senza terra, le cui famiglie abitavano da tempo attorno a Castiglione, in una condizione perennemente precaria. Da prima dell'Unità i Bandini, pur miseri, erano fieramente repubblicani. Gli Arcozzi furono subito socialisti, con Turati e i riformisti. Per quanto repubblicana, quindi anticlericale, la nonna era pia donna di chiesa (le due cose, nei territori dell'ex stato papale, non erano così contraddittorie come i logici potrebbero pensare). Il parroco fu assai deluso quando lei gli si presentò, già in là con gli anni, col pancione tondo, a dire che doveva sposarsi. La delusione fu ancora maggiore quando seppe che il padre del nascituro e futuro marito era un mezzadro socialista e agnostico.
Da quel matrimonio nacque solo un figlio, mio padre. Con una generazione di ritardo sui modenesi, Arcozzi e Bandini abbandonarono la terra quando mio padre, stupendo un pò i genitori, decise di proseguire con gli studi: ginnasio, liceo, università a Bologna, dove incontrò mia madre.
A dire il vero, c'erano già state delle defezioni: segno che nell'Italia unita, tra progresso socio-economico e apparato dello stato in espansione, una certa mobilità sociale c'era stata fin dagli inizi. Uno zio di mio padre era stato preso in affido (strappato dalla famiglia, in un certo senso) da un lontano parente, medico e repubblicano. Mentre la sorella, mia nonna, sarebbe rimasta analfabeta, Antonio Bandini Buti (Buti era il cognome del padre affidatario) studiò in un istituto tecnico marchigiano e, dopo aver fatto da volontario la I guerra mondiale, finì a Milano come giornalista, dove diresse i periodici del Touring Club e fondò, senza mai prendere la patente di guida, Quattroruote. Scrisse diversi libri sul Risorgimento e collezionò di tutto, soprattutto lettere e manoscritti risorgimentali e opere mazziniane, che alla sua morte vennero donate al Partito Repubblicano. Il suo appartamento a Milano, che frequentai sino alla morte della seconda moglie, quasi centenaria, era un incredibile deposito di libri e antichità; un luogo di sogno in cui, da bambino, mi perdevo per lunghissime ore.
Un fratello del nonno, passato coi comunisti nel '21, aveva aperto un'officina da meccanico e suo figlio, di vent'anni più vecchio di mio padre, era diventato medico. Le maestre erano spietate coi figli dei contadini, i cui fallimenti scolastici venivano dati quasi per scontati, ma sapevano riconoscere un inusuale talento per lo studio e, in questo modo, la scuola pubblica schiudeva ad alcuni la porta della promozione sociale.
Il nonno aveva imparato a leggere, ma non a scrivere, alle scuole del Partito Socialista. Oltre agli almanacchi degli agricoltori, leggeva le pubblicazioni socialiste, ma gran parte della cultura sua e della nonna consisteva nella padronanza di una molteplicità di mestieri, più e meno artigianali, legati alla terra: da giovane aveva domato cavalli per un piccolo nobile locale, allevava vacche e maiali, aveva i gelsi e i bachi da seta e passava buona parte dell'inverno filando. Il poco che avevano di contante, però, veniva dal miele delle loro api, che in primavera il nonno portava in giro sul suo carro in cerca di fiori. Alle nuove tecnologie il nonno si adeguava solo quando le vecchie gli parevano aver esaurito ogni utilità: arava coi buoi, andava in giro con un calesse tirato da una giumenta, conservava strumenti che, nei dintorni, ormai possedeva solo lui.

Sotto il fascismo le quattro famiglie avevano avuto posizioni diverse: gli Ansaloni avevano aderito con convinzione; gli Arcozzi avevano cercato di mantenere i contatti con gli altri socialisti finché la repressione non si fece troppo capillare; a un certo punto quasi tutti avevano, chi per convinzione, chi per non perdere il lavoro, la tessera del partito. L'8 settembre, però, vide tutti i maschi arruolati in una situazione simile. Dante Ansaloni non conobbe probabilmente mai Antonio Bandini Buti, come lui di servizio nel territorio italiano d'oltreadriatico, in Albania. Questa volta Bandini Buti non fu preso prigioniero, come gli era capitato a Caporetto nella Grande Guerra. In compenso, prigioniero degli inglesi fu preso, a Tobruk, il colonnello zio degli Ansaloni, e si passò così qualche anno in un campo in India. Il nonno Bortoli riuscì a tornare dalla Jugoslavia, in qualche modo. Il secondo marito della nonna Ansaloni, che lei ancora non conosceva, fu invece catturato dai tedeschi e mandato al lavoro forzato in Germania. Si conobbero molti anni più tardi, nella valle del Panaro in cui lui abitava, e in cui lei si recava in villeggiatura, avendo da quelle parti un parente prete. Don Renato aveva avuto la vocazione aiutata dalla tisi, che rendeva impensabile l'idea che si sarebbe guadagnato la vita da contadino. La stessa tisi che convinse la diocesi di Modena a spedirlo in montagna, dove l'aria è migliore. Uomo semplice e allegro, bevitore cronico e gran giocatore di carte, affezionatissimo ai suoi parrocchiani, pur tenendosi sempre fuori dal pettegolezzo paesano, don Renato è rimasto per me l'immagine concreta e possibile del buon cristiano.
Alla fine della guerra non c'era parte in conflitto che non avesse, nei suoi campi di prigionia, un gran numero di soldati italiani e un mio parente entro il quarto grado.

I miei si conobbero nella FUCI, l'associazione degli universitari cattolici che, a Bologna, aveva come leader mons. Bettazzi, che li unì anche in matrimonio. Da lì si spostarono a Milano, l'italiana land of opportunities, dove mia madre prese la via dell'insegnamento e mio padre quella della Montedison, all'epoca industria di punta, anche se -si sarebbe visto di lì a pochi anni- imprenditorialmente fragile. La Milano dove sono cresciuto, quella che i miei frequentavano, era vitale e piena di ottimismo. Si facevano figli, si cambiava lavoro, si parlava di riforme da troppo tempo attese: la scuola, l'urbanistica, la sanità, la psichiatria, il Concilio Vaticano; l'uscita dal buco culturale in cui il paese si trovava, prendendo come esempio il Nord dell'Europa. Il piccolo appartamento dei miei era sempre pieno di gente interessante e io ascoltavo affascinato quel poco che, da bambino qual'ero, riuscivo a capire.
Tra le persone che giravano per casa c'era Giorgio Levis, professore e traduttore di inglese da Venezia, che aveva fatto la guerra partigiana fino all'inverno del '44; poi, sciolta la formazione dopo il proclama Alexander, aveva passato il fronte ed aveva risalito il Nord Italia con gli inglesi, in un reparto di sminatori. Aveva degli interessi onnivori: politica, scienza e linguistica soprattutto. Ovviamente aveva partecipato al '68, che fu poi l'occasione in cui conobbe i miei. Contrariamente alla sciocca vulgata che circola su quegli anni, era un professore severissimo (come testiminiano anche i suoi ex studenti su Facebook). Un'altra presenza ricorrente era Bianca Ghiron, insegnante di matematica e collaboratrice di Lucio Lombardo Radice. Anche lei aveva partecipato, a Roma, alla Resistenza, e aveva avuto una vita assai movimentata. Nel '56 era emigrata nella Germania Orientale, perché il suo compagno, ingegnere comunista, non riusciva a trovare lavoro in Italia. Tornarono dieci anni più tardi: pur godendo di un discreto benessere, la vita nella Germania Orientale della Stasi risultava a loro sempre più stretta, mentre in Italia, a partire dal '62, la situazione s'era fatta più aperta e rilassata anche per loro. Bianca, che sapeva e sapeva fare un sacco di cose diverse (aveva dovuto arrangiarsi per tutta la vita, cambiando lavoro in continuazione), mi ricorda molto il nonno contadino e semianalfabeta che, in campo assai diverso, aveva avuto una simile varietà di interessi e mestieri.

I miei fratelli e io eravamo la prima generazione pienamente urbana delle nostre famiglie, senza memoria diretta di un passato contadino. Le più belle vacanze, comunque, erano quelle che passavamo dalla zia Sarina, a Castiglione di Ravenna (in fondo allo sterrato poi chiamato via Antonio Bandini Buti), sorella della nonna Enrica, che continuò a fare la contadina fino alla morte.
L'atmosfera aperta, fiduciosa e piena di progetti in cui crescevamo mi sembrava la normalità. Guardarci dal punto di vista dell'Italia di oggi, così spesso chiusa, sospettosa e ripiegata su dei passati spesso immaginari, fa a volte uno strano effetto.

sabato 12 marzo 2011

La ginestra giapponese



Nella più famosa e mossa tra le sue trentasei vedute del monte Fuji, Hokusai (Edo, 1760-1849) rappresentò il vulcano sullo sfondo di due onde di diversi metri, nell'avvallamento tra le quali due barche in evidente dificoltà cercano non colare a picco. La schiuma quasi grifagna che appare sulla cresta dell'onda maggiore tende come degli artigli verso i poveri pescatori, schiacciati sul fondo della barca per stabilizzarla ed evitarne un fatale ribaltamento.
Nella cultura giapponese, per quel pochissimo che ne conosco, l'uomo non è mai "l'uomo in sé" e nulla è mai per sempre. L'uomo è uomo nella comunità, la comunità è nella natura e la natura è in perpetuo movimento. Il senso della vita sta lì: stare nella comunità e nella natura; scoprire di essere natura e scoprire come stare nella comunità.
La natura è fonte di ogni bellezza e di ogni piacere, oltre che di sostentamento. E' anche pericolosa.
Una comunità saggia non può che accettare questo stato di cose e attrezzarsi, ridurre i rischi, prevenire il prevedibile scarto dalla norma (l'eruzione, il terremoto, il tifone), preparare il soccorso. Ogni persona deve sapere cosa fare.
Questo è ciò che abbiamo sinora visto nel Giappone scosso da un terremoto di magnitudo 8.9 e subito colpito dal conseguente maremoto. I grattacieli sono rimasti in piedi, le maestre hanno accompagnato le loro classi verso luoghi più sicuri predisposti nelle periodiche esercitazioni, le casalinghe hanno spento il gas prima di uscire di casa.
Non tutto era stato previsto. Una diga progettata per maremoti di minore entità ha ceduto e la parte bassa di un paese è scomparsa, insieme a tutti i suoi abitanti. In due centrali nucleari la reazione non s'è automaticamente spenta, il sistema di raffreddamento è stato danneggiato e si teme un processo di fusione del reattore fuori da ogni controllo.
Il danno, però, per quanto spaventoso, è assai minore di quello che terremoti con energia di ordini di grandezza inferiore ha causato a paesi meno previdenti.



Nel 1836, ospite di un amico a Torre del Greco, Leopardi scrisse La ginestra, una lunga canzone in versi sciolti ispirata all'eruzione vesuviana che aveva cancellato Ercolano e Pompei. Erano passati solo pochi anni da quando Hokusai aveva dipinto le sue vedute del vulcano Fuji. Partendo da una posizione pessimista (l'uomo soggetto ai capricci di una natura matrigna), assai diversa da quella che informa buona parte della civiltà giapponese, e con toni pieni di enfasi tutta europea, Leopardi giungeva però a conclusioni simili:
[...]Contra l’empia natura
Strinse i mortali in social catena;

di fronte all'enorme e spesso imprevedibile energia della natura, l'unica sicurezza -per quanto relativa- può essere raggiunta rafforzando i legami comunitari.

In Italia accadono spesso fenomeni naturali tutt'altro che imprevedibili: terremoti di media entità in zone sismiche, frane in zone franose, alluvioni causate da torrenti soggetti a piene periodiche. Spesso, questi eventi producono danni e tragedie al di là di ogni ragione. Passato il lutto e lo scandalo, in cui siamo maestri, mi accade poi di chiedermi: ma quella frana è stata messa in sicurezza, quel letto di torrente è stato ripulito dai detriti, quel patrimonio edilizio viene aggiornato secondo i più moderni criteri antisismici?
Si tratta di opere necessarie e vitali, che però danno poco lustro a chi le delibera, che non si prestano a un bel servizio in televisione. Il mio sospetto è che, spesso, questi lavori non vengano fatti, o che vengano fatti solo a metà. E che molti cittadini (e molti giornalisti), passato il momento dell'indignazione e del lutto, non s'interessino più della cosa. In attesa della successiva frana.

lunedì 7 marzo 2011

Un medico


Essendo la medicina un compendio degli errori successivi e contraddittori dei medici, appellandosi ai migliori di essi si hanno ottime probabilità d'implorare una verità che sarà riconosciuta falsa qualche anno dopo. Dimodochè credere alla medicina sarebbe la suprema follia, se non credervi non ne fosse una ancor più grande, giacchè da questo cumulo di errori si sono sprigionate alla lunga alcune verità. Proust, Alla ricerca del tempo perduto.

Marcel Proust conosceva la medicina non solo attraverso la sua condizione di paziente (fin dall'infanzia soffrì di asma, morendone nel 1922, a cinquantuno anni), ma anche in quanto figlio di un importantissimo medico francesce e fratello di un brillante chirurgo. La frase appena citata, che rappresenta chiaramente la medicina dal punto di vista del paziente cronico, mi ricorda però alcune delle chiaccherate sulla medicina che, in sedici anni di frequentazione, m'è capitato di fare col dott. Angelo Pirazzoli, per gran parte del dopoguerra medico a Toscanella, mio suocero. Il punto di vista di Proust era anche il suo: "La medicina, Nicola, non è una scienza esatta," mi diceva con rassegnazione consapevole, ma anche orgogliosa. Giustamente orgogliosa, perché lui, entro il mobile stato della conoscenza medica e delle tecniche diagnostiche, sbagliava assai di rado e mai su patologie importanti.
Per tutta la sua vita professionale, e anche dopo, il dottore non ha mai cessato di aggiornarsi e studiare, di porre domande agli specialisti e di ascoltarne attentamente le risposte, di informarsi sulle nuove macchine e sui nuovi medicinali; integrando il tutto, e qui sta il semplice segreto della professione, nella sua conoscenza e consuetudine delle migliaia di corpi umani viventi, di ogni età e condizione, che costituivano l'universo professionale e umano dei suoi pazienti. Consuetudine che gli permetteva di parlare con gli specialisti da pari a pari: loro da depositari di una tecnoscienza in vorticoso sviluppo, lui con la conoscenza dei corpi nella loro interezza (fisica, emotiva, pensante), che era inoltre conoscenza di lungo periodo, dalla nascita alla morte. Una milza era per lui una milza in un corpo vivo con una storia.
Fin dai suoi studi universitari preferiva le nascite: conservava gelosamente in una sua particolare scatola, dagli anni in cui ad assistere ai parti erano i medici condotti, tutti i suoi strumenti di ostetricia. L'ultima bambina alla cui nascita contribuì, in sala parto, però, fu mia figlia Angelica.
Dicevo di un segreto semplice, ma è semplice solo da scrivere e pensare. La consuetudine coi pazienti richiede tempo e fatica. Soprattutto, richiede una doppia dose di equilibrio: equilibrio tra l'empatia e il distacco professionale di chi deve osservare oggettivamente; equilibrio tra sicurezza di sé e consapevolezza dei propri limiti (limiti di conoscenza e limiti in ciò che si può e si sa fare). E' un equilibrio faticoso, ho osservato negli anni, che diventa un abito mentale, che non ti lascia mai.
In questo e in altri sensi, il dott. Pirazzoli aveva una personalità segnata dalla professione e una professione indirizzata dalla sua personalità: forte, instancabile, sicura di sé, ma non arrogante. Il suo impegno di medico era indistinguibile dal suo impegno per la comunità, che aveva sempre a che fare con il fatto che era "il dottore". E "il dottore" era anche quando andava a caccia, quando giocava a carte alla bocciofila, quando accompagnava le nipotine all'asilo.
Alcuni mestieri s'impadroniscono più facilmente della personalità di una persona e alcune persone sono più inclini di altre a lasciarsi modellare dal proprio mestiere: in questo io e il dott. Pirazzoli avevamo qualcosa in comune. E non è un caso se le sue figlie, pur tenendosi a distanza dalla professione medica di padre e madre, si sono indirizzate a studi con una forte compnente specialistica e tecnica. Alcune persone riescono a vivere il proprio mestiere, con tutto il suo patrimonio tecnico, come un umanesimo: un attivo e dialogante, ma non totalizzante, punto di vista sulla condizione umana. Nel caso del medico, si tratta di un umanesimo tutto particolare, che riguarda sia il professionista che l'oggetto della sua professione, e di un umanesimo particolarmente importante.
Il dott. Pirazzoli s'è spento dopo una breve malattia il 5 marzo, forse nel modo che avrebbe lui stesso desiderato.

venerdì 4 marzo 2011

Limericks e favole VII



Orfana ballerina di Nonantola,
con la matrigna perfida e tarantola:
calzata di cristallo
lui conquistasti al ballo,
mentre d'invidia l'altra, a cena, rantola.



dal mazapegul




domenica 27 febbraio 2011

Una logica tagliente

Sul mio pianeta, il riposo è il riposo. Smettere di consumare energia. Trovo estremamente illogico correre su e giù su un prato, sprecando energia, invece di conservarla. (Signor Spock, Star Trek.)

Ogni buon artigiano tiene sempre a disposizione la serie completa dei cacciavite. Si sa dalle notizie di cronaca nera che i cacciavite possono essere usati per minacciare, talvolta sono stati usati per uccidere. Nel mio mestiere gli strumenti logici svolgono la funzione del cacciavite. Pur avendo con questi strumenti una pratica quotidiana, so bene, però, che possono essere usati (che sono stati usati) come armi da taglio. Mi stimolano a scrivere brevemente degli usi e degli abusi della logica alcune discussioni che ho avuto di recente con amici, come me, di formazione tecno-scientifica, che però, contrariamente a me, sembrano attribuire alla logica un valore decisivo e totale che, secondo me, non può avere; nemmeno in campo tecno-scientifico. Spesso un'argomentazione logica affilatissima nasconde, più o meno consapevolmente, delle premesse marmoree quanto discutibili. La logica, nella sua perfezione, fa sì che si veda meno quanto e come le premesse, quelle da cui dipende il ragionamento nel suo complesso, siano discutibili. La logica, in questo modo, riveste autoritariamente (e abusivamente) di oggettività una serie di conseguenze che, a una più approfondita analisi, appaiono assai meno oggettive. La logica può, se usata male, addirittura frenare la conoscenza. Alcuni meccanismi forti del ragionamento, poi, sono a fatica riducibili a logica: l'ambivalenza, per esempio, o il dialogo.

Prendiamo uno dei più utilizzati bisturi logici: il terzo escluso. Se la frase A è vera, allora la frase "non A" è falsa. Non esiste una terza possibilità tra A e "non A".
Impariamo questo principio quando iniziamo a ragionare e qualcuno deve anche studiarlo a scuola (in filosofia, in matematica). Le cautele da usare quando lo usiamo sono di due tipi. (1) Quando usiamo questo principio, diamo per scontato che A sia un concetto ben delimitato. Per esempio, la frase:
l'animale X ha quattro zampe

sembra innocentemente precisa. Pensandoci su, però, si capisce che gli uccelli e, ancor più, i pipistrelli, pongono un problema: gli arti che utilizzano per volare sono "zampe"? Se non sono zampe, qual'è il punto esatto dell'evoluzione in cui un mammifero con quattro zampe ha una prole con due zampe e due ali? (Terza possibilità, tra avere o non avere quattro zampe, non è infatti data). Non abbiamo così la prova logica che Darwin aveva torto? Si tratta di considerazioni evidentemente irragionevoli, ma perfettamente logiche. E infatti, obiezioni di questo tipo furono sollevate, da un punto di vista puramente logico, contro Darwin e, prima di lui, contro Galileo (e dopo di lui, con accenti meno accesi, contro la meccanica quantistica). Mentre gli innovatori lavoravano attorno alle premesse, i conservatori si baloccavano con la logica.
(2) Nell'esempio delle quattro zampe, vediamo all'opera anche un secondo aspetto della relazione tra logica e realtà. Dal punto di vista logico (secondo la teoria classica), c'è una perfetta simmetria tra A e "non A". Di fatto, però, le affermazioni, per così dire, positive, hanno un valore diverso da quelle negative. Si possono avere quattro zampe in un modo, non averne quattro in molti modi diversi: perché se ne hanno di più o di meno; o perché si usano organi diversi per svolgere funzioni che altri animali svolgono con le zampe (ciglia e flagelli mobili per il movimento in acqua di molti esseri monocellulari, per esempio).
Spesso, nei concreti ragionamenti che si vanno facendo, A è la frase che ci interessa al momento ("avere quattro zampe", "essere ligi alla legge"), mentre "non A" è una sorta di "discarica logica" in cui gettiamo tutto ciò che non rientra in A. La simmetria tra A e "non A" è in questi casi ingannevole.
Un bell'esempio di ciò è nell'Orlando Furioso dell'Ariosto. Le armate cristiana e moresca sono formalmente identiche e simmetriche, con ugualmente nobili cavalieri e ugualmente aristocratiche dame su entrambi i fronti. L'esercito di Carlo, però, è un esercito cristiano, mentre l'esercito di Agramante è non-cristiano: i musulmani, confusi vagamente con i pagani -di cui sono ovviamente all'opposto- si vedono attribuiti culti e divinità del tutto inverosimili. In quanto non-cristiana, l'armata dei mori diviene summa e catalogo di ogni non-cristianità.
Esempi meno divertenti e leggeri sono le inquisizioni di ogni tempo e ideologia. Tristemente famosa furono l'inquisizione staliniana e quelle che ad essa s'ispirarono. Nella stringente logica dei commissari del popolo, chi non era per la rivoluzione (per il gruppo di potere che momentaneamente la dirigeva), era oggettivamente nocivo alla rivoluzione, quindi controrivoluzionario. Il "non A", fatto di menscevichi, di religiosi, di ex ufficiali zaristi, di chi aveva tardato a cogliere i mutamenti al vertice del partito comunista e di mille altre diversità, finiva al muro o riempiva i convogli per il lavoro forzato in Siberia. Il fine e la logica non giustificavano, tra i mezzi da usare, quelli della mediazione politica, che sono propri dei sistemi democratici.

Della logica non possiamo certamente fare a meno, se non vogliamo precipitare in altre forme di autoritarismo ("è così perché è così"), o nell'impossibilità di pensare e comunicare. L'attività dell'artigiano non è riducibile ai suoi utensili, ma è un umanesimo che si avvale di utensili (gente certo peritissima, come diceva Galileo, ma soprattutto di finissimo discorso). Allo stesso modo, chiunque utilizzi la logica (o la statistica, o qualsiasi altro strumento esatto o quantitativo), soprattutto se lo fa entro una dimensione umana e comunitaria, non dovrebbe mai dimenticare un modesto e terreno umanesimo.

PS Aggiungo un esempio dalla matematica per illustrare come il discorso matematico sia (forse) riducibile a logica, ma la creatività che produce i discorsi matematici non lo sia. Tra tutte le terne di numeri interi, particolarmente interessanti sono quelle pitagoriche, che ci danno le misure dei lati di un triangolo rettangolo: (3,4,5) è l'esempio più conosciuto, ma ve ne sono infinite altre, come (5,12,13). Se le terne pitagoriche sono le "pepite d'oro" che c'interessano, ogni altra terna è un prodotto di scarto. La proprietà A:"la terna X è pitagorica" è quella che c'interessa. Ovviamente, se cambiamo problema (quindi punto di vista), le terne di numeri interessanti saranno altre. Per esempio, la terna (8,12,6) non è pitagorica, ma è interessantissima poiché ci dà il numero di vertici, spigoli e facce di un poliedro nello spazio [in un cubo: 8 è il numero di vertici, 12 è il numero degli spigoli, 6 è il numero delle facce]. La logica è quella che seguiamo tagliando l'insieme di tutte le possibili terne secondo un dato criterio, ma non ci è altrettanto d'aiuto nel cercare i criteri interessanti e vitali a cui la logica va poi applicata.

lunedì 21 febbraio 2011

Limericks e favole VI



Un tamburino bizzarro di Brema
quattro bovini maschi comprò a Crema:
a ritmo li bacchetta,
così una musichetta
gaia va col suona-tori di Brema.



dal mazapegul




domenica 20 febbraio 2011

Adriatico




Il Venerdì Santo del 1997 due unità della marina italiana, cercando di contrastare un naviglio pieno di migranti albanesi, ne causarono per errore l'affondamento e, così, la morte di 58 dei 92 occupanti. Si trattava della seconda migrazione di massa dall'Albania: la prima era avvenuta pochi anni prima, alla caduta del regime comunista; questa era causata dalla crisi delle società finanziarie che avevano promesso ai neofiti del capitalismo una via indolore, o quasi, al benessere.
Per noi italiani si trattava di avvenimenti quasi incomprensibili, che ci mettevano a contatto con un mondo che non conoscevamo e che, probabilmente, non volevamo conoscere. Anche le reazioni della politica italiana furono apparentemente paradossali: il governo di centrosinistra stabilì, assai controvoglia, un mini-protettorato a Tirana per frenare il crollo dello stato albanese; il leader dell'opposizione di centrodestra si pronunciò per l'accoglimento illimitato dei migranti albanesi.
Negli anni successivi spiaggiarono sulle nostre coste anche sigarette di contrabbando, giovanissime prostitute, armi da guerra, droga; ma soprattutto muratori e manovali, una parte del ceto medio albanese e pure un gran numero di giovani intelligenti e motivati, tra i quali c'erano alcuni che sarebbero stati tra i miei migliori studenti a ingegneria.
Avevo l'impressione allora, e ce l'ho anche adesso, che gli albanesi siano molto più informati su di noi di quanto noi lo siamo su di loro. Ciò è legato alla relativa egemonia italiana sull'Adriatico: i popoli egemoni vengono scrutati con più attenzione di quanto loro stessi non scrutino i loro vicini. Gli indiani istruiti, si sa, si trovano perfettamente a loro agio con Sheakespeare e con l'inglese; non altrettanto si può dire degli inglesi istruiti con l'hindi e con il Mahabharata.

La rotta tra l'Albania e la Puglia faceva parte nell'antichità romana del percorso tra Roma e l'Egeo: la via Egnatia conduceva da Costantinopoli a Durazzo, quindi, attraversato l'Adriatico in uno dei punti più stretti, si approdava nello strategico porto di Brindisi, terminale orientale della via Appia. Durazzo, Brindisi e la rotta avevano una storia più antica, e hanno -dicevamo- una loro attualità.
Dopo decenni di resistenza sotto la guida di Skanderbeg, l'Albania soccombette nel 1478 alla fortissima pressione ottomana, diventando il paese bi-religioso che è ancora oggi (dopo la breve parentesi dell'ateismo di stato). L'annessione all'impero ottomano, però, fu all'epoca traumatica: una moltitudine di migranti cristiani prese la via dell'Italia. Alcune di quelle comunità, isolate nelle montagne del meridione, ancora sopravvivono, anche linguisticamente: Piana degli Albanesi in Sicilia, Barile in Basilicata e altre.



Assieme ai fedeli, anche le icone attraversarono il canale di Otranto. Il 25 aprile del 1467, a Genazzano, nel feudo della famiglia Colonna, si materializzò un'icona venerata a Scutari. Apparve su un muro del santuario agostiniano della Madre del Buon Consiglio, portatavi da due pellegrini albanesi che l'avevano sottratta al saccheggio turco attraversando l'Adriatico a piedi.
Questa storia l'ho imparata qui a Dozza, nella chiesa della Pianta, un tempo legata a un monastero agostiniano ora scomparso. Mi trovavo lì, casualmente, nel giorno in cui si portava in processione l'immagine della Madre del Buon Consiglio conservata nel nostro comune. Don Andrea mi permise gentilmente di curiosare nella canonica, dove una vecchia stampa appesa aL muro narra, per l'appunto, la storia dell'icona.



Di attraversamenti adriatici, albanesi e icone la Romagna conserva un'altra testimonianza a Fornò, appena a Est di Forlì. Tra le tante, la versione della storia che preferisco è questa: Pietro Bianco, pirata di Durazzo, fece naufragio in Adriatico e si salvò aggrappandosi a un'icona. Spiaggiato in Romagna, si convertì pienamente e divenne eremita; fondando il Santuario di Santa Maria delle Grazie. Il santuario ha una singolarissima architettura circolare e riporta, sul portale d'ingresso, la data della fondazione (1450) a opera di Bianco da Durazzo. Prima di visitarlo, potreste voler consultare questa storia del santuario, che riassume una conferenza del prof. Riccardo Lanzoni, autore di una monografia sul tema.

L'8 settembre del 1943 il soldato Dante Ansaloni, mio prozio materno, si trovava convalescente in Italia, in procinto di ripartire per il suo reparto, in Albania. Il paese era stato occupato e annesso all'Italia nel 1939; un'impresa minore che, come tutte quelle intraprese da Mussolini nella Seconda Guerra Mondiale, si era risolta in un umiliante disastro militare.

giovedì 10 febbraio 2011

Bruno Munari, Venezia 1992

Da youtube, la registrazione della conferenza di Bruno Munari allo IUAV nel 1992. Questo è un brano che noi di Incontri troviamo particolarmente significativo. La registrazione completa dell'incontro (che abbiamo agganciato da qui) la trovate nell'Antologia della Fantasia qui a destra.


martedì 8 febbraio 2011

Limericks e favole V



Un fornaio di Napoli a Gonzaga
trovò una russa, vecchia e un poco maga.
Le fece, per amore,
le paste col liquore.
Le offrì dicendo: "Mangi'o' babbà, Yaga."

dal Mazapegul



lunedì 31 gennaio 2011

Atlante della luce


Il nostro senso più prepotente, la vista, consiste in un complesso apparato per rilevare la luce ed elaborare l'informazione luminosa in base a diversi parametri. Prendiamone uno: la diversa lunghezza d'onda è quella che, variando, ci dà l'informazione "colore". Dal punto di vista della fisica, le lunghezze d'onda variano con continuità: non c'è una barriera netta che separi i "rossi" dagli "arancioni". I recettori della retina, invece, aggregano (negli umani e in altri animali) le frequenze che vengono percepite in "zone", che corrispondono ai colori che percepiamo (la sensazione di "rossità", di "verdezza"...). L'intervallo delle frequenze visibili è un piccolo segmento sulla retta delle possibili frequenze "luminose" (onde elettromagnetiche): alcune frequenze che noi non percepiamo, vengono invece percepite da altri animali, che hanno quindi una vista del mondo leggermente diversa dalla nostra. (Va detto che le frequenze sono solo una parte dell'informazione luminosa che i nostri sensi ricevono ed elaborano: i nostri occhi e il nostro cervello sono anche fatti per organizzare il mondo percepito secondo linee, contorni, tessiture dell'immagine, movimenti... Un minuscolo oggetto in movimento nel campo visivo viene -e non è difficile immaginare delle buone ragioni perché ciò accada- percepito con maggior immediatezza di tutta una serie di oggetti fermi).
Questo lungo discorso per introdurre un breve resoconto della conferenza del prof. Peter von Ballmoos, tenutasi domenica scorsa presso la biblioteca di Toscanella, in cui -partendo dal minuscolo intervallo della luce visibile- s'è fatto un viaggio lungo la retta delle frequenze elettromagnetiche per vedere chi sono, cosa le emette, cosa ci dicono sull'universo e sulla storia degli oggetti che lo abitano. La sala della biblioteca era piena, nonostante il tempaccio che poco invitava ad uscire. Eravamo in tanti a voler poter dire, lunedì mattina:

Io ho visto cose che voi umani non potreste immaginarvi… [...] Ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser…

Ballmoos ci ha premiato con un'esposizione divulgativa, ma rigorosa, con delle belle immagini e con delle ancor più affascinanti storie di vita e morte cosmica. Nell'immagine che vedete sopra, per esempio, uno "zombie" cosmico, una non-morta stella di neutroni, ha agganciato una stella luminosa con la sua forza gravitazionale. Gli zombie, si sa, sono cannibali: la stella di neutroni "mangia" gas della stella luminosa. Precipitando nel campo gravitazionale dello zombie, il gas si surriscalda, emettendo radiazioni ad altissima frequenza (cortissima lunghezza d'onda), quali sono i raggi X. Gli osservatori a raggi X, cercando nello spazio, testimoniano, per l'appunto, di queste cosmiche epopee.
All'altro estremo delle frequenze misurate dagli strumenti, Ballmoos ci ha mostrato il brodo luminoso -distribuito uniformemente, ma non omogeneamente, nell'universo- della celebre "radiazione a 3 kelvin" (segmento delle microonde): l'eco perenne, cioè, del big bang da cui avrebbe avuto origine -secondo la teoria più accreditata- l'universo in cui viviamo.
Per ogni segmento di frequenze, Ballmoos ha fornito non solo immagini dallo spazio e storie celesti, ma anche esempi di dove -nel nostro ambiente quotidiano e terricolo- quel tipo di radiazione possa esser ritrovato.
Queste scene di nascita a microonde e di morte a raggi X ci danno un'idea di quanto la nostra visione del mondo (e anche la nostra vista del mondo) si siano allontanate dalla concezione antica e medioevale del mondo celeste incorruttibile. Abbiamo fatto un bel pò di cammino sulla strada indicata da Galileo, che dei luoghi incorruttibili, nel cosmo, non sapeva che farsene; anche perché, giustamente e molto modernamente, preferiva il mondo corruttibile, dove c'è moto e c'è vita:

«Questi che esaltano tanto l'incorruttibilità, l'inalterabilità, etc., credo che si riduchino a dir queste cose per il desiderio grande di campare assai e per il terrore che hanno della morte; e non considerano che quando gli uomini fussero immortali, a loro non toccava a venire al mondo. Questi meriterebbero d'incontrarsi in un capo di Medusa, che gli trasmutasse in istatue di diaspro o di diamante, per diventar più perfetti che non sono.»



domenica 30 gennaio 2011

Breaking news: Medio Oriente



Se sapete l'inglese e cercate informazioni fresche sulla sorprendente e importante serie di rivoluzioni politiche in Medio Oriente, la fonte migliore è -come spesso in Medio Oriente-
Al Jazeera. L'accento è del tutto british, gli inviati speciali sono ovunque e il governo egiziano, accorgendosi che la copertura di Al Jazeera è troppo estesa e puntuale, ha ritirato all'emittente il permesso di trasmettere dall'Egitto (l'emittente s'è rifiutata di obbedire).
[Essendo io piuttosto abitudinario, comunque, la BBC, da cui -tra l'altro- provengono gran parte dei reporter e dei quadri di Al Jazeera, rimane la mia finestra preferita sul mondo. In italiano, una fonte eccelente è Rainews24].

venerdì 28 gennaio 2011

Limericks e favole IV



Cannuccia, shampoo e acqua del Ticino,
fa bolle senza sosta il mio bambino:
volano sferiche,
leggere e angeliche;
l'han soprannominato Bollicino.

Ovvero,

Cannuccia, shampoo e acqua della Drina,
fa bolle senza sosta la bambina:
volano sferiche,
leggere e angeliche;
l'han soprannominata Bollicina.

dal Mazapegul




mercoledì 26 gennaio 2011



Domenica 30 gennaio 2011 dalle 16.30, presso la Sala Polivalente della Biblioteca di Toscanella (Toscanella di Dozza, nella nuova piazza),

il prof. Peter von Ballmoos

del Centre d’Etude Spatiale des Rayonnements a Tolosa ci viene a mostrare e parlare di cosmologia contemporanea. Sulla sua pagina web trovate, assieme ad altri interessanti articoli espositivi, un petit atlas de la lumière (in pdf), che immagino sia la base della presentazione di domenica.
La cosmologia contemporanea, per il quasi nulla che ne so, è una continua sfida al senso comune: al di là della curiosità, è difficile parlare di Natura con cognizione senza informarsi un minimo su quello che gli scienziati vanno trovando nel cielo sopra di noi. Raccomando a tutti i miei pochi lettori di prendere parte a questa iniziativa di Incontri, che si preannuncia di qualità veramente altissima (ne approfitto per ringraziare Ezio Caroli che ha organizzato la conferenza).

IMPORTANTE: il materiale che ho messo in link è in francese, ma la conferenza sarà in purissimo toscano!