mercoledì 9 aprile 2014

Poesie tweet

In 140 caratteri si possono esprimere pensieri brevi, ma non necessariamente elementari. Esistono molte iniziative in rete (riassunti di libri, poesie, aforismi in un tweet...). Ho buttato giù alcuni tweet in rima per provare.  

Un foglio, un pennello, una vista di scoglio 
(lo voglio il più spoglio, 
per acquarellarvi di fiori un rigoglio).  


“Un cesto di frutta: 
mi dia la più brutta, 
di quella che dopo la butta.” 
Nella mela flesso 
un raggio 
ferì'l visaggio 
del giovane 
Caravaggio.

(ricordando la natura morta alla Pinacoteca Ambrosiana)  


Per gli occhi l'una l'altra inaltruiarsi 
le vidi e lì, sintetico e a priori, 
trovarsi in uno e perdersi 
e in un bacio leggero risdoppiarsi.

(visto in corriera, tornando dal lavoro)



venerdì 27 gennaio 2012

Testi brevi, ma intensi: la parabola del buon samaritano.

Alcuni testi hanno al tempo stesso una loro cristallina chiarezza letterale e la capacità di produrre un'infinita varietà di sviluppi e significati. Uno dei testi più ricchi che io conosca è la parabola del buon samaritano: non ha nulla di sibillino, eppure offre, già nel testo, molti punti di vista da cui può essere guardata. Anzi, la sua ragione sta proprio in un rovesciamento a sorpresa del punto di vista.

25 Un dottore della legge si alzò per metterlo alla prova: "Maestro, che devo fare per ereditare la vita eterna?". 26 Gesù gli disse: "Che cosa sta scritto nella Legge? Che cosa vi leggi?". 27 Costui rispose: "Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come te stesso".28 E Gesù: "Hai risposto bene; fà questo e vivrai". 29 Ma quegli, volendo giustificarsi, disse a Gesù: "E chi è il mio prossimo?".
30 Gesù riprese: "Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti che lo spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. 31 Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e quando lo vide passò oltre dall'altra parte. 32 Anche un levita, giunto in quel luogo, lo vide e passò oltre. 33 Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto lo vide e n'ebbe compassione. 34 Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatolo sopra il suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui. 35 Il giorno seguente, estrasse due denari e li diede all'albergatore, dicendo: Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al mio ritorno.
36 Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?". 37 Quegli rispose: "Chi ha avuto compassione di lui". Gesù gli disse: "Và e anche tu fa lo stesso".


(Luca, 10)

Intanto, chi sono i samaritani? Il presente è d'obbligo: esistono ancora, in Israele, due comunità samaritane, che messe insieme totalizzano meno di mille individui. I samaritani sono, nel frondoso albero profetico che nasce con Abramo, il tronco che precede le prime ramificazioni. Essi, infatti, riconoscono come testo sacro i soli primi cinque libri della Bibbia (la Torah, il Pentateuco), rifiutando come apocrifa la tradizione profetica posteriore. I samaritani sono gli ebrei rimasti nella terra d'Israele al momento dell'esilio babilonese. Quando gli ebrei della diaspora tornarono, trovarono i samaritani.
La comunità ebraica di ritorno s'era evoluta in maniera così difforme da quella che era rimasta, che si negò persino che i samaritani fossero ebrei. Doveva trattarsi di popolazioni non ebraiche deportate in Israele dagli stessi assiri che avevano esiliato gli ebrei in terra babilonese. Queste si sarebbero approssimativamente ebraicizzate, mentre il popolo ebreo languiva in Babilonia. Peggio, dunque, che straniere: si trattava di stranieri che cercavano di imitare gli ebrei e che pretendevano di essere i depositari della religione dell'unico Dio. Doppiamente stranieri, cioé: estranei e somiglianti; diversi e conviventi.
Scegliendo colui che più estraneo non può essere al sacerdote e al levita, la scelta di Gesù non ricade su un romano o su un fenicio, ma su un samaritano: uno di quelli che, pur proclamando di vivere nella profezia, ne rifiutavano una gran parte.

Il samaritano è straniero, ma non barbaro (parla sicuramente aramaico), nè è -per essere straniero- privo di mezzi e di iniziativa. Ha con sé del denaro, si rivolge da pari a pari all'oste, prende decisioni rapidamente e efficacemente. E' risoluto e prudente. Annunciando che pagherà al ritorno (quindi, che tornerà), offre all'oste due buoni motivi per non liberarsi in maniera spiccia dell'uomo ferito: la possibilità di un ulteriore guadagno da una parte, l'avvertimento che il suo operato verrà controllato e valutato dall'altra. (La letteratura antica e meno antica è piena di osti che uccidono i loro ospiti inermi).
Lo straniero (il samaritano) non viene qui rappresentato come colui che ha bisogno d'aiuto (come nei racconti d'ospitalità), né come una minaccia; ma come persona pienamente agente e capace.
Il rovesciamento del punto di vista è chiaro. Non viene presentato il caso di un non ebreo soccorso da un ebreo; ciò che, per il dottore della legge, sarebbe suonata come un'esortazione -come si dice oggi con lessico volutamente malevolo- "buonista". Al dottore della legge vengono proposte due figure famigliari (il sacerdote, il levita) e lo straniero per eccellenza (il samaritano): con questo ultimo, non con i primi due, il dottore è inevitabilmente portato a identificarsi.
Nel momento in cui incontriamo il ferito per strada (e ci siamo solo noi e lui: possiamo soccorrere o passare oltre), noi e il ferito siamo ugualmente stranieri. Nella vita, cioè, ci si va da stranieri: non c'è legame con la terra o con la comunità che ci liberi dalla necessità (e dalla facoltà) di scegliere.

Un altro aspetto della parabola riguarda proprio la differenza. L'uomo mezzo morto, ovviamente ebreo, è assai diverso dal samaritano: persino il Tempio ha, per i due, una diversa collocazione. Erano diversi prima dell'incontro e saranno diversi dopo: l'ebreo rimarrà ebreo, il samaritano rimarrà samaritano. Nella parabola non si scambiano nemmeno una parola.
Eppure, il loro incontro non può che rendere diversi entrambi: il soccorso e il soccorritore, uniti solo nell'azione del soccorrimento. Così come, implicitamente, sono usciti diversi dal loro incontro col moribondo, in peggio, il sacerdote e il levita.

lunedì 16 gennaio 2012

Idee forti: l'evoluzione secondo Darwin

Lo spunto per questo abbozzo meno che amatoriale (non sono un naturalista) viene dalla lettura di alcuni scritti anti-darwinisti. Ciò che mi ha colpito non è che ci sia dibattito intorno alla teoria darwiniana dell'evoluzione (una teoria scientifica che non susciti dibattito è una teoria ben povera, anche in termini scientifici), quanto la profonda ignoranza della teoria che si va discutendo. Questa ignoranza, poi, la si cerca di celare sotto una coltre di sarcasmi, aggettivi, affermazioni tanto sicure di sé quanto logicamente instabili. Sospettare che all'ignoranza sia mescolata la malafede viene naturale.
Per quel poco che so e capisco, cerco di ricordare a mestesso di cosa si sta parlando.
(0) Quando Darwin perviene alla teoria dell'evoluzione, assieme a un altro naturalista, la cronologia del mondo è già stata sconvolta dai geologi, che datano i fenomeni terrestri in milioni di anni, non più in migliaia. Molti naturalisti hanno già ipotizzato che la vita sul pianeta si sia evoluta: alcune specie animali e vegetali sono scomparse, altre sono apparse; le ultime si sono evolute dalle altre nel corso delle generazioni, di genitori in prole. Tutto ciò non viene messo in discussione da nessuno, al giorno d'oggi, tranne che da un pugno di fanatici. (Non era così nell'Ottocento).
Un caposaldo del naturalismo, per niente scontato, era già stato stabilito nel Seicento: la vita è un processo unitario; la vita viene dalla vita. Infatti (i) non c'è generazione spontanea (Redi) e (ii) dietro a ogni generazione di vita c'è la fecondazione di un uovo (la cosa si complicherà al crescere della precisione dei microscopi).
(1) Il contributo di Darwin è una spiegazione razionale che viene proposta come motore principale dell'evoluzione. Quando la prole presenta una varietà di caratteristiche, alcuni esemplari hanno una maggior possibilità di raggiungere la maturità sessuale, di riprodursi e di dar vita a una prole altrettanto abile di perpetuarsi nelle condizioni ambientali date. Queste caratteristiche si trasmettono in qualche modo attraverso le generazioni. Le caratteristiche che rendono l'essere vivente più adatto a perpetuarsi, passando di generazione in generazione, si fissano nella specie. Uno dei principali motori dell'evoluzione è quindi la competizione per portare della prole allo stadio riproduttivo. Non è l'unico.
Questo è, ovviamente, un racconto molto semplificato. Darwin considera le possibili conseguenze dei cambiamenti ambientali, della divaricazione delle specie (mammiferi arboricoli che divergono in terrestri e volanti, per esempio) e di altri meccanismi attarverso cui si dispiegano gli effetti dell'evoluzione.
La teoria di Darwin ha molti pregi: non richiede forze esterne agli esseri viventi, né volontà da parte di questi, né surrogati della volontà (finalità del mondo naturale). Spiega molte cose, ma non troppe, e fornisce un quadro teorico in cui fare ipotesi verificabili per singoli fenomeni. Mette in uno stesso quadro di riferimento l'esperienza degli allevatori, che da millenni incrociano le razze per fer emergere particolari caratteristiche, la documentazione fossile e le osservazioni (di cui Darwin fu maestro) in ecosistemi selvaggi contemporanei. Il meccanismo secondo cui la prole presenta caratteri diversificati resta a questo punto un mistero.
(2) Mendel, un frate boemo, compiendo precise e lunghe osservazioni nelle piante di piselli dell'orto annesso al monastero, spiega il meccanismo (principale, nonesclusivo: anche qui le cose sono più complesse) secondo cui due varianti di uno stesso carattere (pisello rugoso piuttosto che liscio, per esempio) passano di generazione in generazione. Ogni individuo porta con sè due copie dello stesso carattere. Se le varianti sono A (liscio) e B (rugoso), l'individuo può essere AA, AB, BB. Al momento della riproduzione (se sessuata), una delle due copie solamente viene coinvolta nella generazione di un nuovo individuo. Così, da un individuo AA e da un individuo AB possono essere generati individui AA o AB. Da due individui AB abbiamo una prole che può essere AA, AB, BB. Mendel misura nei suoi piselli che ogni elemento della coppia ha pari probabilità nella riproduzione: nel caso di due AB, quindi, avremo AA in un caso su quattro, AB in due casi su quattro, BB in un caso su quattro. (Meglio detto, Mendel deduce ciò -in maniera indiretta e geniale- da precise osservazioni quantitative).
Accade spesso che una delle due varianti A o B sia dominante: cioè che un individuo AB esibisca le caratteristiche portate dal gene A, se A domina. Se due individui AB hanno molta prole, circa un quarto esibirà le caratteristiche B (gli AB e gli AA), mentre un solo quarto esibirà le caratteristiche B.
Una coppia AA e BB verrà sparire la caratteristica B da tutta la sua prole (saranno tutti AB); ma questa tornerà in un quarto della generazione successiva (che sarà, come dicevamo, fatta di AA, AB e BB).
Il profondo lavoro di Mendel fornisce uno dei meccanismi biologici principali (non l'unico) attraverso cui si realizza (per esempio) uno dei fenomeni dell'evoluzione (l'estinzione di caratteri dominanti sfavorevoli). Si noti che la teoria di Mendel, come quella dell'evoluzione, non presuppone direzioni, né volontà, né spinte interne agli organismi.
L'emergere di variazioni prima inesistenti nei caratteri ereditari (mutazioni genetiche) diventa, dopo Mendel, un problema della massima rilevanza ai finidelle scienze naturali. (Problema 1: emergono queste variazioni? Problema 2: come? Problema 3: possono, queste mutazioni, spiegare il percorso evolutivo tra specie molto diverse?).
Una versione di questa storia che pare ignorare completamente il lavoro di Mendel, oltre che quello di Darwin, si trova in GREGOR MENDEL, IL PADRE DELLA GENETICA, IL SACERDOTE CHE HA SMENTITO SCIENTIFICAMENTE IL DARWINISMO
, di Marco Respinti sul sito "Bastabugie". Respinti, significativamente, scrive
È così che Mendel, osservando la realtà e lasciandosi realisticamente ammaestrare da essa, descrisse e scrisse la famosa legge dell'ereditarietà dei caratteri: negli esseri viventi esistono unità indipendenti ed ereditabili, e l'ereditarietà è un andamento determinato dalle diverse combinazioni di codeste unità indipendenti. Non c'è caso, non c'è selezione naturale. C'è invece un corso e ricorso regolare, descrivibile con moduli matematici, che si svolge seguendo una logica ferrea.

Il fatto, forse incomprensibile a Respinti, è che le leggi del "caso" a lui tanto antipatico dispiegano -con ragionamento logicamente ferreo, su questo sono daccordo- "moduli matematici" esattamente corrispondenti a quelli descritti da Mendel. Mendel, che di probabilità non era digiuno, lo sapeva bene. Le sue leggi, infatti, sono probabilistiche, non deterministiche (non per questo sono meno logiche, o meno matematiche). La parola "indipendente" citata da Respinti è, per l'appunto, il concetto probabilistico che permette di dedurre le leggi di Mendel (la prole di due individui dipende solo dai due individui: non dalla storia dei loro antenati; nè dalla prole precedentemene generata da quei due stessi individui).
(3) La scoperta del DNA e del suo ruolo, a sua volta, fornì una spiegazione delle leggi di Mendel a livello molecolare. A un livello, cioè, molto più esplicativo. Anche qui, il DNA non è tutta la storia; anzi, buona parte della storia è tutt'ora sconosciuta. Nel DNA, tra l'altro, possono essere misurate precisamente delle mutazioni e possono essere talvolta dedotte i loro effetti sull'apparenza dell'organismo. Anche se il DNA è perfettamente conosciuto, tra l'altro, molto poco si sa ancora su come agisce (molto si sa, ma molto più s'ignora).
Studi di genetica delle popolazioni, tra l'altro, hanno permesso di incrociare i dati genetici con quelli fossili e, nel caso della specie umana, con quelli storici e linguistici. Ne vengono fuori narrazioni molto coerenti e conferme che il quadro dell'evoluzione darwiniana è un quadro solido, con un futuro davantia sé.

La teoria di Darwin -oggi più dettagliata, mendeliana e molecolare- è, che io sappia, l'unica teoria scientifica della storia naturale in circolazione. Ciò non vuol dire che sia l'unica possibile, né che non siaq destinata ad essere soppiantata da un'altra che la estenda e rivoluzioni, come la relatività generale ha fatto con la fisica newtoniana. Semplicemente, non esiste nessun lavoro scientifico alternativo; manca quella sintesi di idee e pèrove sperimentali da cui nascono le teorie nuove.
Esistono molte crtiche alla teoria darwiniana e c'è molto lavorio critico dentro la teoria darwiniana in sé. Le critiche alla teoria darwiniana sono scientificamente deboli, perché nascono principalmente dal fatto che alcune persone trovano l'evoluzione di Darwin inaccettabile per ragioni filosofiche o etiche. E' raro che da posizioni puramente filosofiche ed etiche (legate a sistemi puramente ideali, cioè ideologiche) nascano teorie scientifiche di successo. Certo, le critiche in sé possono essere buone e degne di considerazione; ma più spesso che no sono state anticipate all'interno stesso della teoria, dove il lavoro (auto)critico è continuo.
Alcune critiche, poi, sono meno buone e degne; quelle generiche soprattutto. Ne cito una, perché bene illustra come il lavoro della (buona) scienza non sia quello di spiegare tutto, anche se si vogliono spiegazioni comunque universali (per quanto transienti). I fenomeni naturali possono essere completamente spiegate in termini di spiriti (come nello sciamanesimo, diciamo). A ogni nuovo fenomeno, basta aggiungere un nuovo spirito, o un nuovo capriccio di uno spirito esistente. Questa teoria, per quanto utile a popolazioni di cacciatori-raccoglitori, non è scientifica. Una teoria scientifica isola una piccola quantità di fenomeni, cerca un modello esplicativo generale che spieghi questi fenomeni, e che sia utile a porre domande su ogni altro fenomeno della stessa classe: domande a cui si possa rispondere affermativamente o negativamente. Così, per esempio, la gravità spiega gran parte del movimento spontaneo delle acque (dall'alto verso il basso), anche se non tutte (le risorgive della pianura padana, per esempio, in cui l'acqua dal basso emerge in alto). Certo, potremmo postulare uno spirito dlla risorgiva e accontentarci, o confutare il principio di gravità tout-court. Lo scienziato, invece, cercherà di trovare una scienza delle acqua sintetica, ma più ricca (un'idrodinamica) in cui entrambi i fenomeni siano spiegabili. Criticare la vecchia idrodinamica ha un senso nella prospettiva dell'idrodinamica nuova, non in quella di un ritorno allo sciamanesimo che tutto spiega e mette a posto. Una teoria scientifica che spiega troppo (in cui non c'è acceso dibattito critico) è da guardare con sospetto. Assomiglia tremendamente a uno sciamanesimo. Un esempio è la psicanalisi, in cui il dibattito sui fondamenti ha spesso portato alla scissione in diverse scienze, non a una sintesi più esplicativa. (Ciò non toglie che la psicanalisi sia un'affascinante narrazione dell'uomo, con aspetti di verità interiore che non possono essere liquidati in base a mere considerazioni scientifiche).
Quello stesso scienziato alle prese con l'idrodinamica, poi (Archimede, diciamo), renderà omaggio, nei giorni comandati, al dio delle acque che ha lasciato la sua città (Siracusa, per rimanere nell'esempio) a secco. Gli scienziati sono uomini e vivono, come tutti gli uomini, in realtà diverse e ruoli diversi, che non è necessario voler ridurre a sintesi a tutti i costi. Lo scienziato che trae spicce conclusioni etiche o filosofiche dalle leggi naturali non è meglio di quello che confuta frettolosamente il lavoro dello scienziato in base a pregiudiziali concezioni filosofiche o etiche. Si tratta di due versioni dello stesso integralismo: una concezione povera della civiltà, in versione bifronte.

domenica 18 dicembre 2011

Ferrovie imolesi

La gloriosa FS625
Tra gli eventi degni di nota dell'anno 1861, di cui ricorre il centocinquantesimo anniversario quest'anno, m'era sfuggita l'inaugurazione della ferrovia Bologna-Ancona: un manufatto attuale, ma anche un cimelio risorgimentale. Della tratta Bologna-Imola si parla da mesi in paese, con toni anche accesi. Un motivo in più per riandare al passato remoto dei binari in questione.
Il primo atto esecutivo è d'epoca pontificia: il governo del papa attribuì la Facoltà di costruire la strada ferrata al Marchese di Casa Valdes nel 1856, che avrebbe dovuto provvedere alla realizzazione in dieci anni, in cambio di una concessione di novantacinque. Tra 1859 e 1860, però, tutti i territori interessati furono annessi al Regno di Sardegna, che si andava espandendo sotto la guida di Cavour. La ferrovia fu inaugurata l'1 settembre 1861 per il tratto Bologna-Forlì e il 17 novembre nel suo percorso complessivo: nasceva in un'Italia che aveva sei mesi appena. Rimase proprietà di compagnie private fino alla nazionalizzazione giolittiana del 1905.
L'1 settembre 1861 vennero inaugurate anche la stazioni tra Bologna (Km 0+000) e Imola (34+056): Mirandola-Ozzano (10+906), Varignana (16+256), Castel S. Pietro (23+034). Al mutare della società e del territorio, nonostante le distruzioni dell'ultima guerra, l'assetto della ferrovia s'è mantenuto singolarmente costante. La linea è stata elettrificata, quindi computerizzata; gli attraversamenti sono stati messi in sicurezza, ma, fino a pochi anni fa, le stazioni erano ancora quelle del 1861. Nel 2003 la stazione di Mirandola-Ozzano fu avanzata al Km 13+013, perdendo Mirandola nel nome. Nel 2008 fu aperta la stazione a S. Lazzaro di Savena (6+545): il paese di 4.874 abitanti del 1861 era diventato da tempo un quartiere satellite di circa 30.000 abitanti, in piena continuità con la periferie orientale di Bologna.
Curiosa è la funzione che fu di Mirandola-Ozzano, utilizzata nella prima metà del Novecento come "Stazione Porta": adibita, cioè, allo smistamento del traffico merci proveniente dall'Adriatico meridionale verso diverse stazioni e centri di smistamento in Bologna. Lo snodo bolognese, che s'era presto trovato a essere il punto in cui convergono tutte le lineee ferroviarie più importanti della penisola, ha sempre sofferto della scarsità di binari disponiobili presso la Stazione Centrale: cinque solamente a inizio Novecento. Anche oggi, con l'Alta Velocità, Bologna si trova a corto di binari e le Ferrovie dello Stato, seguendo le tradizione, lavorano per aumentarne il numero presso la Stazione Centrale, scavando una seconda stazione sotterranea. Milano, altro snodo ferroviario fondamentale, ha invece una tradizioe ferroviaria diversa, basata su una molteplicità di stazioni collegate in rete, che s'è espressa in anni recenti nella realizzazione di una circonvallazione ferrata, il Passante.

Tramvia Bologna-Imola

A collegare Bologna con Imola c'era da tempo immemorabile la via Emilia, parallelamente ad essa la ferrovia Bologna-Ancona e,a partire dal 1886, una tramvia che affiancava la statale, di cui qualcuno in paese ancora ricorda il passaggio, o sa identificare le opere accessorie. La tramvia permetteva di percorrere i 37.5 Km tra Imola e Porta Mazzini a Bologna in un'ora e mezza: poco più tempo di quanto oggi riesce a fare la linea 101 dell'ATC. La linea ferrata era proprietà della Società Veneta, privata; il vettore era il locomotore a vapore della fotografia qui sopra. Allo scadere della concessione cinquantennale, nel 1935, non avendosi provveduto all'elettrificazione, la linea fu abbandonata e sostituita da un servizio di corriere; più in linea con la filosofia del "su gomma" dei trasporti che sarà di gran parte del Novecento, e che ridurrà il movimento dei pendolari all'incubo di traffico che ben conosciamo.
La tramvia aveva una stazione a Dozza, così come oggi, sul nostro comune, esistono fermate del 101 che permettono di raggiungere il centro di Bologna in un'ora; come a fine Ottocento trainati da una locomotiva a vapore.

Concessione per la ferrovia Massa Lombarda - Fontanelice.

Un altro tratto di strada ferrata dell'imolese, oggi scomparso, era la linea ferrioviaria che da Massa Lombarda raggiungeva, attraversando Imola, Fontanelice. Il prolungamento per Castel del Rio, pur nei progetti, non fu mai realizzato. La tratta Imola-Fontanelice fu inaugurata nel 1914, realizzata dalla milanese Società Italiana Ferroviaria Anonima Costruzioni ed Esercizi (SIFACE). Trasformatasi in Santerno Anonima Ferroviaria (SAF) nel 1924, procedette all'attivazione del tronco Imola-Massa Lombarda nel 1934. I danni riportati nel 1944, quando il fronte s'era fermato sul Senio, indussero la SAF a rinunciare al trasporto su ferro, per passare a servizi su gomma, che vennero mantenuti sino al 1973.


Fonti: wikipedia, Provincia di Bologna, Treni di Carta, Archivio Storico Imolese...

venerdì 29 aprile 2011

Filastrocca marinara




E' arrivato un capitano
dallo sguardo un poco strano,
è arrivato con suo figlio
su uno strano, gran naviglio.
Ha degli occhi spenti e buoni
e una barba nera e folta
alla moda d'una volta,
ha dei calli sui manoni.
La sua nave vola via
sulle onde senza scia:
una cosa così strana
da parere quasi arcana.
Gli offro un fiasco di buon vino
per sentirlo raccontare
per che via, per quale mare
sia approdato qui vicino.

"Molti anni ho navigato
per l'oceano salato,
trasportando merci e genti
per i quattro continenti;
finché un giorno non fui giunto
nel Mar Nero ed a quel punto
l'equipaggio stanco morto
volle fare sosta in porto."

Beve, beve il capitano,
mentre il figlio con la mano
della barba i fili intreccia
fino a farne lunga treccia.

"Fu nel bel porto d'Odessa
ch'io conobbi quell'ostessa
di cui, presto ricambiato,
mi trovai innamorato.
Senza fretta, ma con danno,
rimanemmo a Odessa un anno.
Quale danno spiegherò
se dell'altro vino avrò."

Beve, beve il capitano,
mentre il suo catamarano,
pur essendo il mare mosso,
resta fermo, e io non posso
ben comprender come faccia:
tutto rolla, e lui in bonaccia.

"Era incinta la mia ostessa,
cittadina lei d'Odessa,
mentre io, che ero inglese
fui cacciato dal paese.
Mi cacciarono da terra
perché aveva mosso guerra
il paese ove son nato
a quel che m'avea ospitato.
Me ne andai la notte stessa,
lì lasciando la mia ostessa,
e ripresi a navigare
ed a correre ogni mare.
Feci rotta per la Cina,
poi, parendomi vicina,
mi portai in Indonesia,
poi in Birmania, poi in Malesia.
Ma non c'era porto o sosta
che non arrivasse posta:
la mittente era la stessa,
'Olga Ivanovna, ostessa':
'Sai, è nato un bel maschietto,'
mi rigiro io sul letto,
'in tuo onore, capitano,
l'ho chiamato Ivan Gabbiano.'
Sappia, infatti, che di nome
son John, Seagull è il cognome."

Beve, beve il capitano,
e il suo sguardo va lontano.
La sua mente in mar s'è messa,
si dirige verso Odessa.

"Non potevo io aspettare
che una tregua o pace vera
mi lasciasse ritornare
alla madre e locandiera.
Travestito da argentino
noleggiai un brigantino.
Non ci volle un mese intero,
ch'ero giunto al Mare Nero.
Arrivai infine a Odessa,
ritrovai la sua locanda:
stava lì sulla veranda,
allattando, la mia ostessa.
Furono giorni felici,
vidi anche i vecchi amici:
marinai, armatori,
cuochi, attrici e traditori.
Tra questi ultimi un serpente
si rivolse a un sergente
della polizia d'Odessa,
che arrivò la notte stessa.
Mi portarono in prigione,
come spia e come nemico;
quanto triste non le dico
fu lasciar la mia pensione.
Mi volevan fucilare,
ma poi furono contenti
di lasciarmi anni venti
nella torre in riva al mare.
Nella cella, poco dopo,
incontrai un grosso topo,
che assieme a un vecchio ragno,
mi fu unico compagno.
Di lì in capo a pochi anni,
per vecchiaia e malattia,
lasciai loro e i miei affanni
senza la mia compagnia.
Il mio corpo fu sepolto,
però l'anima ribelle
fu all'idea che mi fu tolto
Ivan, e uscì dalla pelle.
Mi recai dalla mia ostessa,
nel suo bar in centro a Odessa,
e convinsi lei e il figlio
a seguirmi sul naviglio.
Un naviglio che vedrete,
se degli occhi buoni avete,
nelle notti senza luna
navigare alla fortuna."

Con la manica asciugò
le sue labbra e salutò,
poi col figlio uscì sul molo;
li seguii, ma lì ero solo.
Era notte di uragano
e mi parve molto strano
tra la nebbia ed il miasma
di veder, quasi fantasma,
una nave che correva,
senza scossa, né rollio,
come fosse del mar dio,
e nel mare si perdeva.
Credermi, lo so, è duro:
al timone è il capitano,
tiene stretta per la mano
una donna in velo scuro.

dal mazapegul

domenica 17 aprile 2011

Parole e suoni: vocali



Un gioco facile, divertente per i bambini e forse anche istruttivo, consiste nel costruire delle frasi utilizzando una sola vocale; poi, di cambiare la vocale per il puro gusto fisico dei suoni che così vengono prodotti. Ecco un esempio con la E:


Se leggete ben che c’è,
ne vedrete delle E.

“Se per delle spesette sceme spende,
né le mele, né le pere le prende.”


Guarda quà, guarda là,
siam finiti nella A.

“Sa par dalla spasatta sciama spanda,
nà la mala, nà la para la pranda.”

Oh, la A non c’è più,
cancellata dalla U.

“Su pur dullu spusuttu sciumu spundu,
nù lu mulu, nù lu puru lu prundu.”

Dove siamo non lo so,
però vedo delle O.

“So por dollo sposotto sciomo spondo,
nò lo molo, nò lo poro lo prondo.”

Firulilà, firulilì,
sento suonare tantissime I.

“Si pir dilli spisitti scimi spindi,
nì li mili, nì li piri li prindi.”


Le prime due strofe sono costruite con parole contenenti la sola vocale E. Le altre si ottengono dalla seconda sostituendo alla E una diversa vocale. Lo stesso gioco può essere fatto con la I:


Dimmi, dì,
i bisticci in I.

"Tiri i birilli,
strizzi i mirtilli,
bisticci, strilli,
dipingi i nidi:
dì, di chi ridi?”

La I sparirà,
rimpiazzata dalla A.

"Tara a baralla,
strazza a martalla,
bastaccia, stralla,
dapangia a nada:
dà, da ca rada?”

La A, io lo so,
cede il posto a una O.

"Toro o borollo,
strozzo o mortollo,
bostoccio, strollo,
dopongio o nodo:
dò, do co rodo?”

Questa O, non so perché,
si trasforma in una E.

"Tere e berelle,
strezze e mertelle,
bestecce, strelle,
depenge e nede:
dè, de che rede?”

Ma le E scendendo giù
Suonan come tante U.

"Turu u burullu,
struzzu u murtullu,
bustucciu, strullu,
dupungiu u nudu:
dù, du cu rudu?”


Ecco una strofa con la A (la I appare senza suono, con il solo scopo di produrre il suono "c" dolce):


L' anatra scappa alla laccia,
la cagna la caccia.
La rana mangia l’alga,
la vacca va alla malga.
Ma sarà già nata
La cavalla alata?


Per finire, una strofetta paurosa e puzzolente:


Odo 'l toro,
odoro 'l porco;
no, non dormo
o sogno l'orco.


Come produrre le frasi? Facilissimo: si segnano su un foglio quante più parole contenenti una sola vocale; quindi si procede a scrivere, cercando di salvare sintassi e grammatica. Il senso, ovviamente, è la prima vittima del gioco.

dal mazapegul

martedì 12 aprile 2011

Geometria non euclidea


Forse meno popolare di altre rivoluzioni scientifiche, quella delle geometrie non euclidee è però legata ad altre meglio conosciute, almeno di nome. Ha un nesso stretto con la teoria della relatività generale di Einstein, per esempio. Più importante, la maniera in cui la comunità scientifica pensa oggi alla "geometria" è figlia della rivoluzione non euclidea. Avendo fatto di recente delle letture in merito, per ragioni di lavoro, ho imparato qualcosa di questa storia.
TESI. La teoria ortodossa. In principio c'è la Geometria, che è poi la teoria maturata tra Medio Oriente e Grecia classica per venir infine mirabilmente organizzata da Euclide (attivo ad Alessandria d'Egitto, a cavallo tra IV e III sec. a.C.) nel suo fortunatissimo libro, gli Elementi. La geometria del piano, per Euclide, s'incardina su pochi principi che, per accorciarne l'esposizione, enuncio in termini moderni (ottocenteschi):
(i) per due punti di un piano passa una e una sola retta;
(ii) ogni retta divide il piano in due parti;
(iii) le figure possono essere mosse "liberamente" nel piano: ruotate attorno a un punto, trascinate da una regione all'altra del piano;

(iv) se c è una retta nel piano e se P è un punto che sta al di fuori di essa, allora esiste un'unica retta b passante per P che è parallela a c.
L'elemento fuori posto. Lo stesso Euclide considerava l'affermazione (iv) (che negli Elementi appare come V Postulato) come sgradevole. Prima di introdurla, infatti, dimostra a partire da (i), (ii) e (iii) un gran numero di teoremi che non richiedono di dare (iv) per scontato. Il motivo per cui (iv) (o meglio, una proprietà ad esso equivalente) veniva considerata poco naturale è che i postulati (le affermazioni che si danno per vere senza dimostrazione) dovevano avere una chiara evidenza, vuoi empirica, vuoi ideale (vuoi aristotelica, vuoi platonica). Il V postulato, poiché richiede, per essere verificato, di considerare le rette nella loro interezza (per verificare se siano o meno parallele; cioè se si incontrino o meno), pareva non possedere questo requisito.
Per più di duemila anni vi furono tentativi di dimostrare il V postulato a partire dalle proprietà (i)-(iii). Si giunse abbastanza in fretta a concludere che, valendo (i)-(iii), almeno una parallela a c che passi per P ci deve essere. Il problema era mostrare che fosse anche unica. Provarono e fallirono, assai brillantemente, greci, latini, arabi ed europei.
Due secoli di geometria fantastica. Le dimostrazioni avevano più o meno tutte la stessa idea di partenza. Si supponeva che il V postulato fosse falso, che, cioè, per P passassero due rette parallele alla retta c. Si cercava poi di arrivare a una qualche contraddizione con le affermazioni (i)-(iii): si sarebbe così dimostrato che, se si volevano salvare (i)-(iii), non si poteva negare (iv). Cioè, (iv) è conseguenza di (i)-(iii).
Bene, negando (iv) alcuni matematici, più e meno professionali, arrivarono a delle vere e proprie mostruosità, a delle geometrie deformi e inaccettabili. E' a partire dal '600 che questo tipo di analisi inizia ad andare veramente a fondo. Quello che va più a fondo di tutti è padre Gerolamo Saccheri (Sanremo, 5 settembre 1667 – Milano, 25 ottobre 1733), gesuita e matematico. Alcune delle conseguenze che Saccheri e altri dedussero dalla negazione del V postulato sono:
(o) la somma degli angoli di un triangolo è sempre inferiore (!) a due angoli retti [Saccheri];
(a) due triangoli con i lati in proporzione sono uguali, o hanno anggoli diversi (non è possibile, cioè, ridurre un triangolo a una scala più piccola o ingrandirlo a una scala più grande!) [Saccheri];
(b) l'area di un triangolo non può superare un certo limite (finito!);
(c) dati tre punti A, B , C non allineati, non è detto che si possa far passare una circonferenza per essi.
Mostruosità dopo mostruosità, Saccheri giunse a una conclusione che gli parve "ripugnare alla natura della linea retta," e decise che lì finiva la sua opera. Probabilmente non ci credeva ed era insoddisfatto, non avendo trovato, tra tante bizzarrie, una contraddizione vera e propria. Padre Saccheri era infatti un matematico rigorosissimo.
ANTITESI. Rivoluzione! Indipendemente uno dall'altro, ma probabilmente influenzati (indirettamente) da Sccheri, un matematico russo, Nikolaj Lobachevsky (Nižnij Novgorod, 1 dicembre 1792 – Kazan', 24 febbraio 1856), e uno ungherese, Jàanos Bolyai (Cluj-Napoca, 15 dicembre 1802 – Târgu Mureş, 27 gennaio 1860), rovesciarono i termini della questione. Partirono dall'ipotesi che il V postulato di Euclide fosse falso e costruirono, in base a questa affermazione (e a (i)-(iii)) tutta una geometria non euclidea (quella oggi chiamata iperbolica); per alcuni versi simile, per altri del tutto difforme da quella classica e prestigiosa di Euclide. I mostri di Saccheri e di altri matematici diventavano così teoremi della nuova e barricadera geometria. Anche il più grande matematico di tutti i tempi, Carl Friedrich Gauss (Braunschweig, 30 aprile 1777 – Gottinga, 23 febbraio 1855) aveva mentalmente costruito la geometria non euclidea, ma non aveva pubblicato niente, per paura delle possibili polemiche, e anche i suoi numerosi taccuini non contengno uno sviluppo completo della teoria.
La decisione su quale geometria fosse quella vera sarebbe forse spettata a questo punto agli astronomi, che avrebbero potuto cercare nell'universo grandi triangoli i cui angoli sommassero meno di due angoli retti.
In realtà, tra i pochi matematici che considerarono i lavori di Bolyai e Lobachevsky, la più parte erano convinti che, negando il V postulato di Euclide, si sarebbe fatalmente prodotta qualche contraddizione; come aveva sperato del resto padre Saccheri con un gran numero di scienziati d'ogni epoca.
Non euclideo è meglio? Una delle caratteristiche più notevoli dell nuova geometria era la presenza di lunghezze assolute. E' noto che nella geometria ordinaria, euclidea, non esistono lunghezze assolute. Per questo usiamo un'unità di lunghezza convenzionale come il metro (1/40.000.000 della circonferenza terrestre all'equatore). Se la geometria fosse non euclidea, invece, delle lunghezze "assolute", cioè intrinseche allo spazio stesso (non scelte ad arbitrio), esisterebbero. Per esempio, ci sarebbe un limite massimo al raggio della circonferenza che si può iscrivere in un triangolo. Queste grandezze assolute, che diventerebbero unità di misura assolute, sono un pò il Graal dei ricercatori, dei fisici in particolari. La carica dell'elettrone e la velocità della luce sono esempi abbastanza popolarizzati. Se dell'universo c'interessa la sola Terra, allora la circonferenza della Terra all'equatore sarebbe una buona unità di misura assoluta. Ma gli umani, animali curiosi e inquieti, non s'accontentano della Terra soltanto, che hanno con Copernico escluso da ogni ruolo protagonista.
Le lunghezze assolute della geometria non euclidea sono legate alla nozione di curvatura dello spazio e, come il nome può forse suggerire, si apre qui il sentiero verso la relatività generale (e i motori dell'Enterprise in Star Trek).
Riflusso. Idealmente, si avevano due teorie contrapposte, quella euclidea e quella non euclidea, pronte a scontrarsi in campo aperto. La posta: la descrizione dello spazio. Lo spazio fisico, quello della meccanica newtoniana; ma anche lo spazio filosofico, quello che Immanuel Kant aveva stabilito, nel secolo precedente, come uno degli a priori della Ragione Pura. La realtà fu più modesta. Le geometrie non euclidee passarono quasi inosservate, la comunità matematica, scientifica e filosofica, saldamente euclidee, non si scossero più che tanto. Il conflitto si spense prima di iniziare e Lobachevsky e Bolyai precipitarono in un veloce oblio.
SINTESI. La nascita della geometria moderna. In realtà, il riflusso non era stato così completo. Bernhard Riemann (Breselenz, 17 settembre 1826 – Selasca, 20 luglio 1866), uno dei più profondi matematici di sempre, nella sua tesi d'abilitazione del 1854, su titolo indicato dallo stesso Gauss, aveva rivoltato la geometria dalla testa ai piedi. Partendo da idee che non erano solo matematiche, ma anche fisiche e filosofiche, aveva ampliato l'orizzonte da una geometria (la geometria, euclidea o meno che fosse) a un'infinita moltitudine di geometrie, tutte da tenere in considerazione; vuoi per aggiornare la descrizione dello spazio al mutare delle conoscenze scientifiche, ma anche per una molteplicità di altri utilizzi (per cui, infatti, tutte queste geometrie riemanniane vengono oggi utilizzate). Casi particolarissimi delle geometrie di Riemann erano quella euclidea e quella non euclidea.
Beltrami: il V postulato non è dimostrabile dagli altri. La tesi di Riemann fu pubblicata postuma nel 1866 ed ebbe prima d'allora scarsa eco. Eugenio Beltrami (Cremona, 16 novembre 1836 – Roma, 18 febbraio 1900), prima che dalla tesi di Riemann, fu influenzato dalla pubblicazione dei taccuini di Gauss, che lo spinsero a cercare dei "modelli concreti" della geometria non euclidea. Ciò fece in due articoli assai influenti sulla geometria a venire, pubblicati nel 1867 (sotto il segno di Gauss) e 1868 (sotto il segno di Riemann).
Beltrami inventò in effetti tre modelli, uno dei quali sviluppava una breve formula di Riemann. E' quello che sta all'origine della stampa di Escher che trovate qui sotto. Descrivo brevemente il modello. Il "piano" è l'interno di un disco di raggio uno. Le "rette" sono sgmenti di retta o archi di circonferenza che sono perpendicolari al bordo del disco. Basta fare un paiodi disegni per vedere che, in questa interpretazione, le proprietà (i) e (ii) valgono, mentre la proprietà (iv), il V postulato di Euclide, non vale. Per verificare la proprietà (iii) bisogna parlare di movimenti "rigidi", che conservano le distanze tra punti di una figura; quindi di distanza tra punti. Questo è un pò più tecnico e va la di là di un post che non vuol essere matematico. Basti, per avere un'idea, sapere che gli uccelli che Escher ha disegnato nel disco hanno, rispetto alla "distanza di Beltrami", esattamente le stesse dimensioni. Ai nostri occhi euclidei, che guardano al piano non euclideo di Beltrami da fuori, essi hanno invece dimensioni via via più piccole, mano a mano che vanno verso il bordo.
Ora, chiunque creda nella geometria euclidea (che ci dà il disco, gli archi e i segmenti) e sappia fare due conti con la distanza di Beltrami, può verificare che, all'interno del piano euclideo, abbiamo una famiglia di curve che verifica tutti i postulati della geometria non euclidea. Quindi, la geometria non euclidea non conduce a contraddizioni! (A meno che non sia la stessa geometria euclidea a essere contraddittoria, ciò che, ai tempi di Beltrami, nessuno credeva possibile).
In particolare, possiamo negare il V postulato di Euclide senza trovare mai nulla di assurdo: i tentativi di padre Saccheri, pur così fruttuosi in altro modo, erano in definitiva destinati al fallimento.
Il lavoro di Beltrami, in qualche modo, spostò completamente il centro del dibattito su euclideo/non euclideo. Entrambe le geometrie sono ugualmente coerenti e senza difetto logico: simul stabunt vel simul cadent. Il dibattito su quale delle due fosse la migliore e la più vera, quindi, non riguardava più la matematica; ma la filosofia, la fisica, la neurofisiologia. Infatti, a tutt'oggi c'è in queste discipline un continuo dibattito sulla geometria del cosmo (è ancora euclidea, alle scale ora osservabili), sulla geometria della Ragion Pura (e qui i filosofi guadagnano il loro stipendio disaccordandosi), sulla geometria con cui il nostro cervello percepisce e ordina il mondo là fuori, di per sé caotico e inconoscibile.

























PS Una proprietà della geometria non euclidea è che l'area dei cerchi cresce esponenzialmente col raggio (non solo col quadrato del raggio, come fanno modestamente i cerchi euclidei). Ciò torna utila a tutti quegli organismi che, come i coralli, hanno bisogno di esporre alla corrente grandi superfici, utilizzando poco volume. La formazione corallina dell'immagine che apre il post è, geometricamente parlando, un puzzle di frammenti di piano non euclideo, che in poco raggio sviluppano tanta superficie.