domenica 9 gennaio 2011

L'Unità d'Italia in un personaggio: Vito Volterra I


Con la sua lunga vita di uomo, scienziato e figura politica e istituzionale, Vito Volterra (Ancona, 3 maggio 1860 – Roma, 11 ottobre 1940) rappresenta bene la complessità delle radici nazionali. O meglio (la metafora radici non mi è mai piaciuta, poiché rimanda a dei fantomatici DNA immutabili, nonché all'inevitabile morte della pianta delle cui radici si va parlando), il complesso ecosistema storico e culturale da cui nasce l'Italia di cui si celebra quest'anno il centocinquantesimo anniversario. In particolare, Volterra ben rappresenta i frutti della moderna e illuministica idea di cittadinanza, che in Italia è indissolubilmente legata al processo di unificazione nazionale sotto la dinastia sabauda, prima, e sotto gli articoli della Costituzione Repubblicana dal 1946 in poi.
Vito Volterra nasce nel ghetto ebraico dell'Ancona pontificia, da una famiglia poverissima, ma con parenti di ogni condizione in diverse parti d'Italia e nella stessa città portuale. Ha pochi mesi quando le truppe sabaude conquistano la città, che fa il suo ingresso (plebiscito del 4-5 novembre 1860) nel Regno d'Italia. Per quella anconetana, come per tutte le comunità ebraiche d'Italia, l'ingresso nel nascente stato unitario significa la piena emancipazione:
"La differenza di religione non porta alcuna differenza nel godimento e nell’esercizio dei diritti civili e politici. Sono quindi abolite tutte le interdizioni a cui andavano per lo addietro soggetti gli israeliti e i cristiani acattolici" .
(Dal decreto del primo Regio Commissario per le Marche, Lorenzo Valerio, emanato al momento dell'insediamento in Ancona. Il decreto ci ricorda che, nel 1860, esisteva in Ancona una piccola comunità greco-ortodossa, che, in quanto tale, non godeva di pieni diritti sotto la legge pontificia).
Le limitazioni ai diritti degli ebrei erano state di diverso tipo; alcune erano già state rimosse prima dell'annessione al Regno d'Italia. I famigliari di Vito, comunque, potevano ricordare il tempo in cui gli ebrei erano soggetti al coprifuoco permanente, costretti a rientare entro le mura del ghetto all'imbrunire. Gli ebrei non potevano risiedere, né possedere beni immobili fuori dal ghetto.
Nell'Italia unita tutte le comunità, le etnie, le fedi entravano con pari diritti; ma certo non con pari opportunità, né con gli stessi talenti. Le comunità ebraiche, escluse fin da quando ne avessero memoria dal settore immobiliare (cioè, da quella strutturale propensione a investire gli eventuali risparmi in beni solidi, che oggi assume la forma del "mattone"), avevano per secoli dato in eredità ai figli, in mancanza di palazzi e poderi: estese reti di relazioni parentali (su scala peninsualre, europea, addirittura mediterranea); titoli di studio e competenze professionali (medici, soprattutto); in ogni caso, un buon livello di alfabetizzazione, che era pregiato e posseduto anche dalle più miserabili delle famiglie ebree (forse non credevano che, come dice un importante ministro di oggi, "con la cultura non si mangia"). C'è anche un aspetto religioso, in questo: nell'ebraismo il capofamiglia svolge un ruolo di tipo sacerdotale nelle celebrazioni del Sabato e durante le numerose festività religiose. Per poterle svolgere, deve essere in grado di leggere, possibilmente anche l'ebraico.
L'infanzia e la prima giovinezza di Vito ben testimoniano delle opportunità offerte dal Regno d'Italia a chi si fosse trovato nelle condizioni di coglierle. Uno degli effetti fu che Vito rimase, fino a quando non sentì che i Savoia avevano tradito il patto con gli italiani, un monarchico fervente, acceso e talvolta anche furioso.
Dunque, Volterra rimane orfano di padre all'età di due anni e passa, con la madre, sotto la protezione e col supporto di uno zio, l'ingegnere Edoardo Almagià. Vive a Torino e Firenze, dove studia all'Istituto Tecnico, in cui incontra Antonio Roiti, professore di fisica, che lo aiuterà fino ai primi passi della sua carriera scientifica e universitaria. Lo aiuterà, soprattutto, a resistere alle pressioni della famiglia perché si affretti a terminare gli studi per un posto sicuro di contabile: il giovane Vito, che ha già dato precoci segni di serio interesse per la scienza, è ostinatamente intenzionato fin dai suoi anni di adolescente a proseguire gli studi fino alla laurea.
Per dirla in breve, nel 1878 è iscritto all'Università di Pisa, nel 1879 è ammesso alla Scuola Normale e nel 1883, a un anno dalla laurea, è già Professore di Fisica nella stessa università. Si potrebbe a questo punto approfittare dello spunto per parlare del sistema universitario italiano all'indomani dell'Unità: pochi professori, che si conoscono tutti tra di loro, con cattedre direttamente controllate dal ministero. Il discorso ci porterebbe però troppo lontano. Accontentiamoci di ricordare che, da studente, Volterra partecipò ad una (verbalmente) violenta manifestazione di giovani monarchici, avente come bersaglio i socialisti, forza all'epoca nascente in Italia e in crescita ovunque in Europa. Vito, però, non aveva simpatie né per i socialisti, né per i repubblicani: il debito di riconoscenza degli ebrei emancipati verso la monarchia era diventata, non solo per lui, sincera e giovanilmente irruenta lealtà.
Lo si vide anche quando, nel 1915, un cinquantacinquenne Volterra, matematico di fama mondiale e senatore del Regno, corre ad arruolarsi nel Regio Esercito. Farà la guerra da tecnico e inventore (a lui si deve l'idea di sostituire l'elio all'idrogeno nei dirigibili), ma poi saliva sui palloni lui stesso, per farne prova, a portata di tiro dalle linee austriache.
La Prima Guerra mondiale, in cui l'Italia fu tra i vincitori, segnò nondimeno un'incrinatura nel rapporto tra la monarchia e gli italiani: un'incrinatura forse difficile da scorgere immediatamente, con le celebrazioni della vittoria e nel mezzo dell'epidemia di spagnola; ma del tutto seria, come si sarebbe visto ben presto.

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